Nel caso vi fosse bisogno di un’ulteriore dimostrazione del suo smarrimento, l’intellighenzia progressista del nostro paese si è sentita in dovere di vestire i panni della famiglia Benetton all’indomani del crollo del ponte Morandi. Era l’occasione propizia per recuperare un briciolo delle proprie ragioni storiche, risalire la china dopo la débâcle del 4 marzo tornando a difendere gli interessi delle grandi maggioranze piuttosto che quelli delle camarille finanziarie e industriali. E invece no: giù a difendere a spada tratta l’intangibilità della proprietà privata, lo stato di diritto, la bontà della famiglia Benetton e chissà quant’altro a fronte delle voci che, per quanto in taluni casi sgraziate, invocavano provvedimenti immediati. Certo, l’applicazione imparziale della legge è importante, ma c’è da distinguere il piano strettamente giuridico da quello politico.
Su quest’ultimo c’è, come si suol dire, trippa per gatti. Studiamo il caso: ci troviamo di fronte a una concessionaria autostradale privata a cui, per negligenza e incuria, crolla un viadotto che causa la morte di 43 persone e l’isolamento di una città da oltre mezzo milione di abitanti. Sul fronte dei guadagni, l’impresa stappa invece lo spumante, come ben testimoniano le cifre: profitti del 25,3% nel 2015 e del 16,6% nel 2016. La cosa non sorprende, giacché Autostrade è rimasta sistematicamente indietro sui piani di investimento programmati. Ma allora perché non far sentire il fiato sul collo a un gestore rapace e disattento, che gode della concessione di quella che è a tutti gli effetti una semi-rendita, acquisita peraltro a quattro soldi nella sbornia privatizzatrice degli anni 90? Non dimentichiamo poi che, sotto il profilo legale, l’articolo 43 della Costituzione dà piena facoltà allo Stato di riprendere sotto il proprio controllo servizi essenziali o situazioni di monopolio qualora se ne ravveda l’utilità generale. Davvero non la si ravvede? La questione qui non è attendere il nome e il cognome di uno o più colpevoli – che se la vedranno a tu per tu con i giudici – ma prendere atto dell’ennesimo – e in questo caso tragico – fallimento di quel processo di privatizzazioni avviato una trentina di anni orsono.
Negli attimi dello stordimento e della costernazione furono i partiti di governo a far la voce grossa, a cui ha fatto da contraltare la goffa difesa dei Benetton di cui sopra. Ma alle parole roboanti dei primi giorni, durante i quali si erano invocate misure di diverso tipo in quel continuo balletto delle dichiarazioni a cui questo governo ci sta abituando, pare non aver fatto seguito alcunché. Già una certa titubanza iniziale di Salvini pareva foriera di un sostanziale nulla di fatto. Ieri è arrivata un’ulteriore conferma: grazie alla modifica di un comma del decreto Genova, Autostrade sarebbe persino rimessa in condizione di partecipare alla demolizione del viadotto. Ad aggiungere la beffa al già evidente danno, ci ha pensato l’amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, Giovanni Castellucci. Non più tardi di pochi giorni fa ha minacciato un’azione legale contro la commissione ispettiva ministeriale che ha fornito una relazione dettagliata sulle responsabilità di Autostrade in un chiaro tentativo di intralciare l’accertamento della verità. Il governo non ha praticamente reagito.
È quindi giunto il momento di incalzare l’esecutivo che sulla faccenda ormai balbetta: la nazionalizzazione di Autostrade è la misura più adeguata da intraprendere. Ci sono buone ragioni per farlo, nonostante ci sia da credere che questo governo non troverà mai la volontà politica necessaria ad agire in questo senso. Per decenni, le autostrade sono state il fiore all’occhiello dell’Italia sotto due profili. Il primo è quello strettamente ingegneristico: pur venendo da una storia di arretratezza economica, nel dopoguerra l’Italia riuscì ad accumulare un capitale di conoscenze tecniche di prima qualità che permisero di unire il paese a dispetto di una geografia non semplicissima. Il secondo ha a che vedere con le condizioni proprie dell’economia politica attraverso cui questo e altri miracoli si realizzarono: il protagonismo economico delle imprese pubbliche nei settori strategici, le quali fecero da volano a uno sviluppo economico formidabile, mettendo a disposizione le proprie competenze tecniche e manageriali per un progetto collettivo.
Il vento anti-statalista degli anni 90 ha fatto sì che lo Stato si privasse di competenze e gioielli industriali di questo calibro. La rinazionalizzazione di Autostrade e altri settori strategici dovrebbe essere inserito quindi in un processo che rilanci lo sviluppo economico nel paese, creando buon lavoro e recuperando i costi generati dalla perdita di efficienza tecnica associata alla gestione privata. Gli indennizzi potrebbero essere minimizzati dai maxi profitti realizzati e dal basso costo pagato.
Sabato 20 ottobre una manifestazione per la nazionalizzazione di Autostrade avrà luogo a Roma, con partenza alle 14.30 da Piazza della Repubblica. Riprenderci quello che è nostro è l’unica cosa che ci è rimasta da fare.