Staccare due pezzi dal sistema nazionale, rendendoli autonomi, con programmi personalizzati, stipendi diversi, insegnanti propri. E non due pezzi qualsiasi, ma Veneto (per cominciare) e presto anche Lombardia, due delle regioni più importanti d’Italia: significa “regionalizzare” quasi 200mila cattedre, un quarto del totale del Paese. Per alcuni sarà la grande occasione per rispondere davvero alle esigenze degli istituti, per altri l’inizio della fine della scuola italiana: di certo la riforma della cosiddetta “autonomia differenziata” avrà grandi conseguenze sul settore dell’istruzione. Specie se il testo finale dell’accordo tra Stato e Regioni sarà quello che approderà la prossima settimana in consiglio dei ministri (ma dovrà passare poi in parlamento), e che ilfattoquotidiano.it è in grado di anticipare.
LA RIFORMA DELL’AUTONOMIA – Lunedì 22 ottobre è l’anniversario del referendum con cui i cittadini di Veneto e Lombardia hanno detto sì all’autonomia. Il governatore Luca Zaia, suo grande sostenitore, vorrebbe festeggiarlo con l’inizio dell’iter per l’approvazione della legge, a maggior ragione ora che al governo c’è anche la Lega, che attraverso la ministra per gli Affari regionali, Erika Stefani, ha preso a cuore la questione. Nel ddl ci sarà di tutto, visto che il Veneto chiede addirittura 23 nuove materie di competenza, ma fra queste ce n’è una che avrà di sicuro un impatto importante sul resto del Paese: l’istruzione. Di definitivo non c’è ancora nulla: la proposta veneta è praticamente pronta (tanto che dovrebbe essere subito a Palazzo Chigi), quella lombarda non ancora (ognuno ha il suo accordo) e comunque saranno oggetto di trattativa parlamentare. Entrambe, però, ragionano sulla stessa piattaforma: il modello di riferimento è la provincia autonoma di Trento, che ha il suo sistema scolastico, indipendente da quello nazionale. L’obiettivo è regionalizzare la scuola.
DOCENTI REGIONALI – Al Nord hanno sempre puntato il dito sul problema delle cattedre vuote. Non è solo la retorica, vagamente discriminatoria, dell’invasione dei professori meridionali, c’è anche un dato oggettivo: vuoi perché la maggior parte dei docenti viene dal Sud, vuoi perché tanti dopo aver preso servizio al Nord chiedono il trasferimento, in alcune Regioni settentrionali, e su alcune particolari materie (ad esempio sostegno, lettere, matematica), c’è una forte carenza di personale, che nemmeno i recenti concorsi hanno risolto. Ecco perché gli autonomisti sono determinati a trasformare gli insegnanti in dipendenti regionali: in capo all’amministrazione locale, e non più al Ministero dell’istruzione, con tutto ciò che ne consegue.
STOP AI TRASFERIMENTI E CONCORSI LOCALI – La conseguenza più ovvia riguarda la mobilità: fermata, o quantomeno molto limitata. I docenti veneti saranno assunti dalla Regione, e dunque potranno spostarsi solo al suo interno. Chiedere il trasferimento fuori Regione non sarà del tutto impossibile (dovrebbero essere previste delle finestre temporali ad hoc), ma sarà come chiedere il trasferimento presso un’altra amministrazione pubblica, quindi molto più difficile (e meno conveniente). Questo varrà per tutti gli insegnanti assunti in futuro, mentre a quelli già in cattedra sarà data possibilità di scegliere se rimanere in servizio presso il Miur o transitare alla Regione.
LE ALTRE NOVITÀ: STIPENDI PIÙ ALTI, PROGRAMMI E UFFICI – Potrebbe valerne la pena anche per lo stipendio: il Veneto studia forme di retribuzione maggiore per i suoi insegnanti. Sarà possibile farlo, del resto, con la nuova autonomia e le risorse a disposizione di una Regione ricca come il Veneto. Il minimo sarà garantito e livellato sui contratti nazionali, il “bonus”, invece, sarà su base meritocratica, un po’ come voleva fare la “Buona scuola” renziana (prima che venisse smontata dai sindacati), ma con un sistema di valutazione locale. Le altre novità riguardano i programmi e l’offerta formativa, che potranno essere personalizzati: il Veneto, ad esempio, ha già firmato un accordo col Miur che prevede l’insegnamento di storia e cultura veneta (all’interno dei corsi esistenti), dalle elementari alle superiori; in Lombardia, invece, spariranno gli istituti tecnici (i cosiddetti Its) che verranno assorbiti dai percorsi di istruzione e formazione professionale (uno dei vanti della Regione). Dappertutto gli uffici (l’Usr regionale o l’ex provveditorato) con relativo personale transiteranno all’amministrazione locale, e non saranno più delle propaggini del Miur.
EFFICIENZA O DISCRIMINAZIONE ? – Molto dipenderà dai soldi, e da quante risorse saranno effettivamente trasferite dallo Stato alle Regioni (il pacchetto scuola per il Veneto potrebbe valere circa 2 miliardi). La trattativa è in corso, però queste prime indicazione contenute nella bozza già tracciano una strada: il cambiamento sarà graduale, non tutti i docenti passeranno subito alle Regioni, ma potenzialmente Veneto e Lombardia valgono da sole un quarto delle cattedre del Paese; portare 200mila docenti fuori dal sistema nazionale sarebbe una svolta epocale. Positiva, secondo Elena Donazzan, assessore all’Istruzione del Veneto in prima fila nella riforma: “L’organizzazione militare del Miur, fatta di uffici, vincoli, regolamenti incrociati, non è in grado di gestire le esigenze della scuola. Affidarle al territorio è l’unica soluzione possibile”. Così, ad esempio, il Veneto potrà bandirsi i suoi concorsi per le materie scoperte, senza aspettare i tempi macchinosi del Ministero: “A noi mancano 9mila insegnanti di sostegno, nel 2020 finalmente potremo assumerli”. L’altra faccia della medaglia è il rischio di smontare il sistema nazionale: se il Veneto otterrà ciò che chiede, potrebbe essere seguito da Lombardia e altre Regioni ricche, mentre in capo al Miur resterebbero poche Regioni. Sindacati, tecnici, ed esponenti del governo e dell’opposizione attenti alle esigenze del Meridione si chiedono se sia questo il futuro della scuola italiana. Anzi, delle scuole italiane, visto che ne esisteranno diverse, di Serie A, B e C, e non più una sola.