Molti anni or sono, per ragioni, a dire il vero, non proprio edificanti, frequentai una Scuola di specializzazione postuniversitaria. Vi si studiava, innanzitutto, il c.d. Statuto dei lavoratori, nome con cui è nota la l. n. 300/1970, contenente “norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Fonte normativa più importante, nel nostro ordinamento, dopo la Costituzione, in materia di lavoro, lo Statuto si muoveva nella tradizionale linea di sviluppo di questa branca del diritto, traducendo la volontà del legislatore di proteggere il prestatore come parte più debole del rapporto di lavoro.
Il tempo, purtroppo, è passato e quella legge sembra ormai relegata nell’archeologia giuridica, poiché viviamo ormai nell’era della globalizzazione, ovvero nella diffusa interazione tra i Paesi industrializzati, quelli emergenti, quelli in via di sviluppo e i Paesi ancora sottosviluppati, sia sotto il profilo economico, che sul piano sociale, culturale, tecnologico e della comunicazione. Un processo che ha causato una radicale e profonda mutazione del mercato del lavoro, sia a carattere internazionale, sia a carattere interno: le economie internazionali e quelle nazionali, tendono a integrarsi sempre di più, giungendo in questo modo, alla creazione di un mercato unico mondiale.
Il lavoro è uno dei “fattori della produzione” e la “forza-lavoro” è coinvolta nel processo della globalizzazione, sullo stesso piano dei capitali e delle merci. Se, tuttavia, per i capitali e le merci, sussiste la rapida circolazione, mentre i primi, grazie all’informatizzazione, riescono a ridurre drasticamente i tempi per la loro trasmissione fisica, meno fluida, invece, è la circolazione delle persone e segnatamente di quelle che si spostano da un contesto a un altro, alla ricerca di lavoro. Una anomalia, per vero, la cui ragion d’essere è che il lavoro non è un “fattore” come gli altri, non potendosi interrompere o aumentare il flusso di forza-lavoro a piacimento, come accade invece per le merci.
Essendo stata, peraltro, regolata, ormai da decenni, la circolazione della forza lavoro in tutti i Paesi industrializzati, in molti casi, ciò sta provocando forti tensioni sociali, poiché il flusso di persone in cerca di lavoro provenienti dai Paesi con economie arretrate, nel frattempo non si è arrestato, creando così, il crescente fenomeno delle migrazioni clandestine che incidono sensibilmente sulla “questione lavoro”.
Uno degli aspetti più destabilizzanti per i lavoratori dell’era della globalizzazione è la tendenza alla delocalizzazione della produzione materiale: nei Paesi meno sviluppati, gli oneri e le regole a carico delle industrie risultano molto inferiori, se non, addirittura inesistenti. La delocalizzazione produttiva, è favorita anche da un altro divario: quello relativo alla imposizione fiscale a carico delle imprese. L’effetto convergente di questi due elementi, basso costo del lavoro e bassi oneri fiscali, genera per le imprese la scelta di chiudere o ridimensionare le produzioni nazionali e aprire linee produttive all’estero a scapito dell’occupazione interna.
Un altro aspetto del processo di delocalizzazione è la pressione esercitata sulle condizioni di lavoro dei lavoratori. La possibilità di spostare all’estero intere linee di produzione può essere usata come una vera e propria minaccia per assicurarsi – da parte dell’impresa – un alleggerimento dei propri costi di produzione, ottenendo, ad esempio, l’assenso dei sindacati a turni di lavoro più pesanti, a salari più contenuti, o anche lucrando da parte dello Stato o delle pubbliche amministrazioni incentivi alla produzione, alla riduzione di imposte e via continuando.
Per quanto concerne la flessibilità, questa si riferisce alla mobilità, come necessità del lavoratore per non rimanere ancorato al proprio posto per tutta la durata lavorativa, ma di potersi convertire alle diverse esigenze del mercato, come anche adattarsi a un più un ampio ventaglio di forme contrattuali e aderire alle nuove necessità, imposte dalla produzione mondializzata. La conseguenza di questo sistema è la precarizzazione, che in assenza di adeguate tutele compensa la forzata flessibilità imposta dal nuovo mercato mondiale del lavoro.
Il fenomeno delle migrazioni internazionali, è un altro aspetto della globalizzazione, con effetti positivi e negativi. Di positivo è, che nei Paesi di partenza si abbassa il livello di disoccupazione, privando però il territorio di un vero e proprio capitale umano. Relativamente ai Paesi destinatari dei flussi migratori, quando si parla di lavoratori assunti con regolare contratto di lavoro, i benefici sono maggiori dei costi da sostenere. La situazione è del tutto diversa quando gli stranieri risultano in posizione di irregolari e senza un contratto di lavoro e svolgendo un’attività lavorativa in nero.
L’immigrato irregolare viene considerato clandestino e per questo è costretto ad accettare qualsiasi tipo di occupazione, anche se sottopagata e con condizioni di sfruttamento. Mediante il lavoro nero, lo Stato non percepisce oneri contributivi. Si tratta di una profonda e radicata evasione fiscale, generata proprio, dal cosiddetto sommerso. Il lavoro non dichiarato e mediamente retribuito in misura minore dell’occupazione regolare produce un generale effetto depressivo sui livelli salariali. La disoccupazione, la povertà assoluta e la povertà relativa – che sotto certi aspetti è ancora più pericolosa – oramai stanno dilagando in modo preoccupante, ma ancora di più, è la mancanza reale di un serio progetto che possa in qualche modo arginare il fenomeno.
Le proposte, più o meno modeste, ma autorevolmente prospettate, non mancano. Perché non si dovrebbe ammettere screpantianamente il contratto di schiavitù, patto con il quale i lavoratori assumono un obbligo all’obbedienza perpetua nei confronti della controparte e rinunciando a negoziare il salario e le condizioni di lavoro, ricevono in cambio un reddito di sussistenza, vita natural durante: una rilevante percentuale di poveracci, tra disoccupati, sottoccupati, precari, immigrati, lo accetterebbe subito volontariamente; e anche i datori di lavoro, possono trarre vantaggi da questo tipo di contratto. E perché non riprendere l’idea swiftiana di cucinare in deliziosi intingoli i bambini poveri, per risolvere il problema della povertà? O quella breytenbachiana di usare i neri come combustibile nelle fabbriche, mandando all’aria tutti i predicozzi caritatevoli sull’Africa, tagliando corto con l’umanitarismo peloso dell’occidente? Forse perché non si ha il coraggio di concentrare il fuoco dell’attenzione sulla contraddizione tra morale umanitaria e prassi inumana.