La democrazia e il mercato sono compatibili? Questa domanda, invero assai annosa e risalente, si ritrova nel libro che Wolfgang Streeck ha pubblicato un paio di anni fa con il titolo How Will Capitalism End? Essays on a Failing System (Verso, 2016). Streeck è un celebre sociologo tedesco che aveva già dato prova di acume e intelligenza con un testo del 2013 dal titolo Gekaufte Zeit, tradotto nello stesso anno da Feltrinelli con il meno efficace titolo Tempo guadagnato.

In questo libro Streeck aveva, tra molte cose interessanti, tracciato il passaggio da uno Stato fiscale a uno Stato debitore, attribuendo tra l’altro la crisi del debito pubblico anche all’aumento delle spese alla fine degli anni Settanta in costanza di prelievo fiscale. In altri termini, un gigantesco ‘favore’ ai ricchi che continuavano a pagare le stesse tasse a fronte di uno Stato sempre più pressato da richieste di erogazione di servizi.

Ma il punto, che Streeck tratta in Tempo guadagnato e in Come finirà il capitalismo?, è la relazione tra democrazia e mercato. Lo Stato debitore vede l’ingresso, tra i soggetti decisori, di una ‘classe’ nuova, diversa rispetto ai soggetti politici canonici di ogni democrazia. Si tratta dei ‘creditori’, che in quanto tali avanzano pretese decisionali circa la gestione finanziaria ed economica dello Stato debitore. Un cambiamento radicale del paradigma democratico, che sposta il lessico della politica (secondo una tavola di corrispondenze che lo stesso Streeck fornisce): dal livello nazionale a quello internazionale; dal cittadino all’investitore; dall’elettore al creditore; dall’opinione pubblica al tasso di interesse; dalla lealtà alla ‘fiducia’ (dei mercati); dall’interesse generale al servizio  del debito.

In Come finirà il capitalismo? Streeck chiarisce tuttavia un punto: capitalismo e democrazia non sono contrapposti, mercato e politica non fanno parte di due universi, ma sono entrambi espressione diversa di un assetto politico-economico della società, di una configurazione ‘di classe’. Si tratta di un punto decisivo, poiché ciò a cui invece abbiamo assistito negli ultimi decenni, e che ha subito un’impressionante accelerazione negli ultimi anni, è l’idea che le regole dei mercati fossero meramente tecniche, ovvero senza colore politico. E che questa dimensione tecnica fosse rigorosamente ‘scientifica’, dunque inoppugnabile.

Il paradosso di questa logica è che essa ha portato a risultati del tutto a- o anti-scientifici, ovvero alla costituzione di un vero e proprio culto (non a caso si parlava sopra di ‘fiducia’, che si potrebbe tranquillamente sostituire qui con ‘fede’) dell’economia e dei mercati. I mercati sono dio, si direbbe, e l’euro è il suo profeta. La moneta unica infatti è oggetto, nell’opinione pubblica, di una sorta di santificazione, un verbo nel quale occorre ‘credere’, tanto che chi non ci crede è un ‘euro-scettico’, ovvero un eretico.

Ma anche l’euro non ha niente di tecnico-scientifico, come molti dogmi dell’economia. La moneta – e così anche la moneta unica – non è un mero veicolo di informazioni, ma un’istituzione, e come tale è storica, politica, e segue le cose del mondo piuttosto che collocarsi in un empireo di intoccabilità divina. Aggiungiamo che in questa sorta di teologia economica penitenziale e punitiva il mercato non si può contraddire, e il più grave peccato è il debito. E non è un caso che in un’Europa a traino tedesco, nella lingua della Merkel ‘debito’ e ‘colpa’ si dicano con la stessa parola: Schuld.

La Commissione europea lavora entro quest’ottica: avete fatto professione di fede verso i Trattati (la Bibbia della nuova teologia economica), siete già ampiamente ‘colpevoli’ – ovvero indebitati – e non potete pensare di tornare al culto delle vecchie divinità keynesiane. Siamo contriti, sembra dire Moscovici, ma dobbiamo ‘punirvi’ per la vostra hybris, l’ardire che avete avuto nel superare i parametri che tutti insieme ci siamo dati. Anche perché, continuano i volenterosi custodi dell’ortodossia usando la leva di un’escatologia mondana, altrimenti pagheranno i vostri figli. E non sfiora il dubbio che il debito possa, se ben pensato, alleviare la condizione di chi vive e lavora qui e ora e magari anche dei suoi figli.

Rimane da capire chi si assumerà il compito di mettere in questione la teologia economica, e come. Forse un nuovo senso comune lentamente si sta facendo strada, eppure i predicatori dell’eresia spesso sembrano non essere all’altezza. E occorre chiedersi quale sarà il prezzo dell’eresia.

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