Le bozze delle relazioni tecniche sullo stato del viadotto Morandi furono modificate, “ammorbidite”. È quanto hanno scoperto i militari della Guardia di finanza genovese, guidati dal colonnello Ivan Bixio, interrogando gli ingegneri della società Spea nel corso delle indagini sul crollo del 14 agosto. Dagli interrogatori è emerso che alcuni documenti, riguardanti in particolare le condizioni degli stralli e dei piloni, sono stati cambiati a seguito delle riunioni con il coordinatore Maurizio Ceneri  (sentito per tutta la giornata di mercoledì) mentre altri venivano modificati all’insaputa del dirigente.

Ora i pm Massimo Terrile e Walter Cotugno cercano di capire l’esatto motivo per cui le relazioni venivano falsate. L’ipotesi degli inquirenti è che gli ingegneri volessero negare la necessità di controlli più invasivi e più costosi sulla struttura. Intanto la Spea ha diffuso una nota in cui nega l’indiscrezione, diffusa dal Secolo XIX, che la valutazione delle condizioni di sicurezza del ponte fosse in realtà decisa a tavolino, poiché gli esiti delle ispezioni trimestrali risultavano sempre identici. “Le attività di controllo – scrive la società di monitoraggio – si svolgono sul campo, mediante l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia, nel pieno rispetto delle leggi e delle normative tecniche e sono periodicamente verificate da enti interni e accreditati certificatori esterni che ne attestano l’efficacia sostanziale e la correttezza procedurale. Il sistema di classificazione dello stato delle infrastrutture – prosegue – ha dato prova di affidabilità in oltre 30 anni di applicazione su circa 4mila opere della rete di Autostrade per l’Italia monitorate”.

Non solo, dopo il ritrovamento tra i detriti del ponte di quello che con ogni probabilità è il tirante che ha provocato il crollo, gli investigatori hanno identificato altri due reperti di particolare importanza. Anch’essi saranno inviati a Zurigo per la perizia tecnica: per il trasporto è prevista anche una scorta. E il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi, ha anticipato che per 21 indagati si profila l’aggravante di aver agito con colpa cosciente: rendendosi conto del rischio che correva il viadotto, ma essendo convinti di riuscire a evitarlo intervenendo per tempo con i lavori di rinforzo sulle pile 9 (quella poi crollata) e 10. “La colpa cosciente – ha spiegato Cozzi – è un grado di intensità della colpa che si configura con la rappresentazione dell’evento che si dovrebbe scongiurare, ma con l’intima certezza che si possa evitare: è il caso di Guglielmo Tell“. “Ciò significa – prosegue – che gli indagati sapevano che il ponte poteva avere dei problemi, anche gravi come lo stesso collasso della struttura, ma erano intimamente convinti di poter intervenire prima che questo avvenisse. L’intima convinzione di evitare il peggio da parte dei soggetti preposti ad intervenire ha portato all’assenza di interventi. Nessuno ha deciso, per esempio, di chiudere nel frattempo il ponte al traffico o limitarne i passaggi”.

I magistrati sono arrivati a ipotizzare l’aggravante dopo gli interrogatori degli ultimi giorni e l’analisi della mole di documenti e delle conversazioni tra quanti hanno avuto a che fare con il viadotto. Tutti sapevano – è la tesi della procura – ma nessuno fece nulla. Nessun intervento strutturale fu eseguito dal 1992 (anno del consolidamento della pila 11) fino al 2015, quando iniziarono gli studi sulle pile 9 e 10, per arrivare al progetto di retrofitting del 2017 approvato definitivamente nel giugno 2018. I lavori sarebbero dovuti partire tra la fine di quest’anno e la primavera del 2019.

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