Sono al massimo i motori del più grande ammortizzatore sociale surrettizio del Bel Paese, il gruppo Ferrovie dello Stato, società pubblica che si distingue per quest’attività di succursale dell’Inps, non per essere una moderna società di trasporti.
Tre anni fa fu la volta delle Ferrovie sud-est, con 1.300 ferrovieri in Puglia, azienda fallita e sotto alcune inchieste della Magistratura per malversazioni, oggi tocca alla ex Menarini ora Industria Italiana Autobus, con 541 operai a Bologna. Lo Stato anziché assicurare investimenti tecnologici per il rilancio della ex Menarini e i necessari ammortizzatori sociali preferisce infatti la gestione diretta dell’azienda. Un modo di fare inspiegabile visto che qualche mese fa sempre lo Stato ha venduto ai giapponesi di Hitachi la fabbrica di treni della Breda Ansaldo e ora compra una fabbrica di autobus.
Abbiamo di fronte un governo in stato confusionale, il cui primo atto era stato far saltare, giustamente, le procedure di matrimonio tra Anas e gruppo FS dopo un breve fidanzamento tra Armani dell’Anas che è restato il sella, e Mazzoncini delle FS che è stato disarcionato. La grande integrazione annunciata strada/treno, che serviva per spostare i debiti (ecco di quale trasporto si tratta) di Anas in FS e dunque fuori dal bilancio dello Stato, è stata sostituita ora dall’integrazione Alitalia/FS, si dice per intercettare i turisti italiani e stranieri. Sono funzioni per le quali basterebbe una semplice intesa commerciale, come fanno del resto le Deutsche Bahn con Lufthansa e le SNCF con Air France. Poche centinaia di turisti giornalieri di Alitalia da portare in treno, che lo usano lo stesso quando è comodo, non giustificano questo anomalo e avventuroso progetto di integrazione.
I grandi e piccoli partner europei di FS hanno, invece, una consolidata integrazione tariffaria ferro/gomma che non esiste in Italia. Questa sì andrebbe ricercata rapidamente con alleanze regionali per migliorare il trasporto dei pendolari, martoriato anche per questa assenza, che interessa potenzialmente quasi 10 milioni di passeggeri al giorno. L’acquisizione di Alitalia, che verrebbe definitivamente nazionalizzata, è priva di una motivazione trasportistica ed economica. Eventuali economie di scala non sono state dimostrate: l’unica giustificazione che rimane, ma non dichiarata, è quella di risolvere definitivamente il problema del personale nel peggiore dei modi. Problema che si protrae e che condiziona la politica del governo degli ultimi 20 anni.
Per 10 anni, fino al 2008, ci sono stati “allegri” aiuti di Stato in assenza di piani di ristrutturazione e di alleanze che tutte le compagnie facevano, anche le più forti. In quell’anno, con Alitalia sommersa dai debiti, Berlusconi arriva al governo sbandierando la difesa dell’italianità della Compagnia agonizzante e spolpata da politiche clientelari e consociative. Verrà “salvata” dalla cordata italiana guidata da Roberto Colaninno (Cai, Compagnia aerea italiana) che incorpora la malconcia Air One. Con gli accordi di Palazzo Chigi, vengono individuati oltre 5mila lavoratori in esubero della vecchia Alitalia che finiscono in cassa integrazione per quattro anni, più tre di mobilità, 7 in tutto, con un sussidio di lusso finanziato con una tassa di tre euro su tutti i biglietti aerei e dalle tasse dei contribuenti che finiscono nell’Inps.
Passati 10 anni pochi giorni fa la CGS è stata aggiornata al 31 ottobre per 1.600 addetti. Ora è pronto un decreto di una nuova proroga per altri 1500 addetti. Da ricordare che nel 2014 ci fu l’ingresso di Etihad in Alitalia con il 50% del capitale, il matrimonio venne salutato trionfalmente da Renzi “allacciatevi le cinture si parte”. A luglio di quell’anno scattarono altri ammortizzatori sociali per oltre 2.200 addetti in esubero. Nell’aprile 2017 la ex compagnia di bandiera venne commissariata per essere venduta. Da allora è passato più di un anno e la data finale della cessione, già prorogata una volta, è stata di nuovo spostata dal 30 aprile al 31 ottobre, mentre la restituzione del prestito statale di 900 milioni è stata anch’essa posticipata al 15 dicembre. Dopo aver speso inutilmente quasi 10 miliardi di euro, ora il governo gioca la carta (pubblica) delle FS.
Questo corpaccione, che secondo gli esperti è tra le cause del nostro grande debito pubblico, sarebbe in grado di incorporare mille esuberi senza tensioni sociali ma certamente non di rilanciare, come dice Luigi Di Maio, l’Alitalia.
Il torrente di risorse pubbliche messe a disposizione per gli ammortizzatori è il vero problema. Così non si può andare avanti: la Cig è nata per tutele di breve periodo e per mercati in restrizione. Vanno abbandonate le aziende decotte e salvaguardati i lavoratori con sussidi e trattamenti uguali a quelli degli altri settori. Non è il caso del trasporto aereo che è in continua crescita, mentre Alitalia perde quote di mercato. Nel frattempo l’ex socio Etihad, che doveva essere il salvatore, reclama al Tribunale di Civitavecchia la restituzione di 200 milioni di euro. Quello che Renzi, Calenda, Delrio e Gentiloni hanno evitato surrettiziamente, ovvero la vendita dell’ex compagnia di bandiera chiesta a gran voce dai contribuenti italiani e dai consumatori, lo vogliono fare ora ma alla luce del sole, Di Maio e Salvini. Ma non trovano una giustificazione convincente per far rimanere in mano pubblica la compagnia che perde 1,2 milioni al giorno. Il giochino del commissario Luigi Gubitosi, del tira e molla delle offerte (Lufthansa, Air France, Cerberus e Easyjet) per tirarla per le lunghe, è servito al controllo politico per non staccare la spina clientelare e corporativo e a se stesso per accreditarsi come boiardo di Stato.
E così visto che la coperta era ed è corta a farne le spese sono stati in primo luogo altre imprese ed altri settori merceologici e altri lavoratori abbandonati a se stessi che non hanno potuto accedere agli ammortizzatori sociali neppure per aziende non decotte come l’Alitalia. Ecco perché sarebbe ora che decidessero gli italiani con un referendum se tenere l’Alitalia pubblica o venderla al più presto, come ci auguriamo. E’ bene ricordare che l’ultima fusione di rilievo fatta dalle FS con il matrimonio con le Ferrovie Nord, che ha dato vita a Trenord, è stata un fallimento. I pendolari hanno perso dignità, l’azienda è al collasso e i costi di gestione sono doppi rispetto a quelli delle altre regioni.