L’occasione della sua vita è arrivata nel 2015 con un annuncio su Internet. Il curriculum mandato senza troppa convinzione, quando nemmeno lei ci credeva più: per Giulia Cappetti, infermiera viterbese, è l’ultimo tentativo, dopo decine di cv mandati a vuoto in tutti gli ospedali e le cliniche d’Italia. “Dopo la laurea in Scienze infermieristiche ne avrò mandati trenta, forse di più. Mai nessuna risposta, positiva o negativa”, racconta Giulia. Nemmeno un “grazie, le faremo sapere”. “Poi ho visto su Facebook l’annuncio di un’agenzia che selezionava personale sanitario in Inghilterra e in Germania e ho provato a mandare il curriculum anche lì”. Nemmeno un’ora dopo squilla il telefono: è un colloquio di lavoro. A ricordarlo adesso le viene da ridere: “Mi sembrava troppo bello per essere vero: ho anche pensato a una truffa, e invece era tutto serissimo”. A gennaio la selezione a Bologna, ad aprile – molta burocrazia e molte scartoffie dopo – Giulia prende l’aereo con biglietto di sola andata. Destinazione Nottingham, la città famosa per lo Sceriffo arcinemico di Robin Hood.

Ho mandato il cv e dopo un’ora mi hanno chiamato per il colloquio. Ho pensato a una truffa e invece era tutto serissimo

Nel reparto di ortopedia del Queens Medical Centre Giulia è l’unica straniera in reparto e all’inizio inserirsi non è facile. “Era tutto nuovo per me: sistema sanitario diverso, un’altra lingua, un accento incomprensibile”. Ma le cose pian piano migliorano, passa al reparto di radiologia interventistica e due anni e mezzo dopo prova a salire di grado: “Ho consultato il sito dell’ospedale e nel reparto di endoscopia c’era un posto vacante come charge nurse, coordinatrice infermieristica”. Una specie di vice caposala, che coordina e controlla il lavoro degli altri infermieri: quando Giulia ottiene il posto ha 25 anni, è la più giovane del suo reparto. “In Italia sarebbe stato impossibile, prima di arrivare a un ruolo manageriale passano almeno vent’anni”.

Per lei il problema numero uno è la mancanza di opportunità per i giovani: “In Italia non si assume. Oppure si resta precari per anni, nonostante mille master e mille specializzazioni. Io ho avuto l’indeterminato praticamente subito, con tutte le tutele”. Anche per questo, dice, ogni anno arrivano nel suo ospedale tantissimi infermieri italiani. I suoi ex-colleghi di corso rimasti in patria, invece, hanno fatto molta fatica. Alcuni si barcamenano tra contratti di sei mesi o un anno, altri lavorano part-time o a partita Iva. “C’è anche chi ha proprio mollato la professione e ha aperto un negozio, o cominciato un altro percorso di studi”. Un paradosso, considerando che negli ospedali italiani mancano 50mila infermieri. Cifra calcolata dalla Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche, secondo cui il gap è destinato ad aumentare. Ma a quanto pare, domanda e offerta non si incontrano. “Qui invece, per chi ha voglia di darsi da fare, la strada è in discesa”. Giulia ha provato a convincere molte amiche a trasferirsi oltremanica. C’è riuscita con il suo compagno, che l’ha raggiunta quasi subito: ora entrambi lavorano e hanno comprato casa. Il suo futuro – ne è sicura – è nelle Midlands inglesi. Ma spesso le capita di chiedersi dove sarebbe adesso, se avesse deciso di rimanere nel Lazio: “Forse lavorerei, ma sicuramente non farei il lavoro dei miei sogni. Il mio stipendio è quasi il doppio di quanto sarebbe a Roma, e posso ancora crescere professionalmente”.

In Italia forse lavorerei, ma sicuramente non farei il lavoro dei miei sogni.

Ammette di aver avuto paura di dover tornare in Italia una sola volta, nel 2016, con il referendum per la Brexit. Ricorda che la mattina dopo le elezioni il suo compagno l’ha svegliata dicendo “Abbiamo perso”. “Sono andata al lavoro preoccupata, e ho visto la stessa ansia sul volto dei miei colleghi: nessuno se l’aspettava”. A metà giornata arriva a tutti i dipendenti provenienti dai Paesi comunitari una mail dalla direzione: “Ci hanno rassicurati che saremmo stati tutelati in ogni caso e non avremmo perso il lavoro. Un bel sollievo, avevo già paura di dover fare le valigie“. A tornare a casa, per ora, non ci pensa nemmeno. Più della nostalgia degli amici e della famiglia, è il confronto con chi è rimasto a preoccupare Giulia: “Tornare in Italia mi mette tristezza, non è cambiato niente rispetto a quando sono partita, molta crisi, poco lavoro, tanti amici disoccupati. E penso: se fossi rimasta, che fine avrei fatto?”.

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