“Non andai a Lisbona per documentarmi sull’ambientazione di una storia che avessi già in testa ma per trovarne una, per riempire gli spazi rimasti in bianco, i punti cruciali della trama (…) la storia non aveva ancora una forma propria, ma già iniziava a rendersi indipendente dalla realtà perché aveva trovato una sua ambientazione e una sua atmosfera”.
Come ombra che declina di Antonio Muñoz Molina (traduzione di Carlo Alberto Montalto; 66thand2nd) è un testo che procede su un doppio binario di un circuito urbano. Il perimetro dove si muove buona parte della narrazione è Lisbona, vista sia come luogo della mente che nella sua concretezza di città fatta di palazzi, strade, hotel, panorami. Ci sono divagazioni anche su Granada, la città del passato personale di Muñoz Molina, e i percorsi pindarici percorsi fuori dal Portogallo, ma tutto, alla fine, si ritrova nella capitale lusitana.
Come ombra che declina è un libro seducente, poetico e intelligente che racconta, in parallelo, la fuga di James Earl Ray, l’omicida di Martin Luther King, nascosto all’Hotel Portugal nel vano tentativo di salire su una nave diretta forse in Angola, forse in Brasile o a Goa, e dell’autore stesso, alle prese con il processo di scrittura, sedotto dall’atmosfera lusitana. Romanzo storico, memoir, flusso interiore e autofiction, una caccia all’uomo svoltasi a livello globale nel fuoco degli anni Sessanta, Antonio Muñoz Molina 30enne, e infine l’autore nel presente.
Vivido, ipnotico, manuale per ogni potenziale scrittore che voglia lavorare sui luoghi e le ambientazioni, l’attesa quasi eterna (anche se durerà solo dieci giorni) di un uomo braccato da tutti, appassionato di geografia, paranoico e razzista. Incubi, sogni e visioni che si rincorrono tra ieri e oggi in un mosaico riuscitissimo. “Volevo che la scrittura sviluppasse un fraseggio, un’inquietudine da musica jazz (…) scrivere è vedere il mondo con gli occhi di un altro. Sentirlo con altre orecchie. È l’audacia di credere che si può scoprire quanto accade nel segreto della coscienza di un altro, chiunque sia, un assassino, un fuggitivo”.
Jungle Rudy di Jan Brokken (traduzione di Claudia Cozzi; Iperborea), ennesimo riuscito viaggio letterario dell’autore olandese, porta il lettore nella Caracas degli anni Cinquanta e nella Gran Sabana, lo sconfinato altopiano venezuelano dove torreggiano le montagne a cima piatta con cascate e canyon mozzafiato e specie endemiche uniche al mondo. Esperti e pazzi bush pilot, nomadi alle prese con la mumba kaypun – i postumi di una sbornia pesante -, serpenti corallo più o meno velenosi, tapiri giganti, la ragionevolezza anarchica dei pemón che ignorano la proprietà privata, botanici alla ricerca del chinino nella selva oscura: il mosaico di Jungle Rudy mantiene le mille sfumature verdi del mondo quasi incontaminato che l’ha generato.
Come già fatto ne Nella casa del pianista, Il giardino dei cosacchi, Anime baltiche e Bagliori a San Pietroburgo, Brokken miscela la sua esperienza personale di viaggiatore instancabile alla storia di un personaggio fuori dagli schemi: Rudolf Truffino, in arte Jungle Rudy, avventuriero olandese di origine italiana, pioniere che ha vissuto tra gli indios pemón dedicando la propria esistenza alla mappatura della foresta pluviale dell’Orinoco.
Ne esce un ritratto stupefacente: appassionato di Mozart, consulente particolare della poetica spericolata di Werner Herzog, impegnato in un continuo braccio di ferro con lo Stato per la salvaguardia di quella terra selvaggia che aveva contribuito a conoscere aprendovi le prime vie d’accesso e guidando preziose spedizioni scientifiche, Truffino è una figura reale e letteraria al tempo stesso. Un libro biografico che può essere letto come un romanzo d’avventura, che poggia su fondamenta concrete grazie alle fonti e alle testimonianze dirette di famigliari e compagni di avventure di Jungle Rudy, figura solitaria, mistica e indimenticabile.
Sette passaporti di Giuseppe Caridi (prefazione di Alberto Bregani; Edizioni Diabasis) è un insieme di racconti di viaggio, la voglia di narrare incontri, esperienze, problemi e suggestioni. È un testo di confronti, con altri viaggiatori e con gli abitanti dei luoghi, di scambi di vedute. È un tratteggio di storie vecchie e nuove che richiamano diversi lavori – come impostazione di struttura narrativa – di Lawrence Osborne.
Sette passaporti perché l’autore dichiara, a inizio libro, che sta per terminare le pagine disponibili del suo settimo passaporto. Sommandoli tutte sono circa 298 pagine di timbri e di avventure. Micronesia, Isole Salomone, Magadan, Birmania, da un Paese all’altro alla ricerca del ricordo perfetto: “come se fosse compresso, liofilizzato, ibernato, come se fosse un dato a cui non intendo assolutamente apportare modifica alcuna e che deve restare immutato nella sua perfezione e immutabile dovrà permanere ogni volta che lo richiudo”.