Nel giorno in cui ricorrono i cinque anni dalla scomparsa di Lou Reed, nasceva Scott Weiland (anch’egli passato a miglior vita), Simon Le Bon (leader dei Duran Duran) compie 60 anni e, nel 2006, Amy Winehouse pubblicava il secondo e storico album Back To Black: l’ultimo rilasciato in vita dalla cantante.

Questo per dire che – ricorrenze a parte – neanche a farlo apposta, non bastasse quanto fatto in vita, pure nel giorno della sua morte Lou Reed fu e continua a essere la cosa più importante mai successa. Icona carismatica quanto ermetica (“a me sul palco tiravano siringhe, le urla erano per David Bowie”, disse lui), cominciò nei primi anni Sessanta stregando il pioniere della distorsione e del noise John Cale: il quale prima di intraprendere con lui la fulminea avventura nei Velvet Underground rimase (a proposito) folgorato dalla scelta di Reed di tirare due corde della sua chitarra sulla stessa nota. La genesi di quel sound tanto narcotico quanto velenoso che avrebbe poi marchiato a fuoco generazioni di fortunati (chi più chi meno) musicisti: Sonic Youth, R.E.M., Joy Division, Nirvana ma anche U2: con Bono Vox che si spinse a tal proposito a dichiarare che ogni canzone della band altro non è che un derivato di un pezzo di Lou Reed.

Negli anni Settanta quindi l’esordio solista, agevolato (nonostante il primo omonimo Ep passò pressoché inosservato) dall’amico e allievo David Bowie, che ne produsse il secondo fortunato Transformer. Seguiranno lo scotto inizialmente pagato con Berlin (realizzato grazie all’apporto di quel Bob Ezrin che lavorerà anni dopo, ironia della sorte, a The Wall dei Pink Floyd) e sempre per RCA gli album dal vivo Rock N Roll Animal e Lou Reed Live: intervallati nel mezzo da quel Sally Can’t Dance che ebbe modo di rinnegare più volte e che nonostante costituisca, ad oggi, il suo maggior successo, vide luce solo per permettere alla sua carriera (finanziariamente parlando) di proseguire. Non stupisce quindi lo sclero rappresentato da Metal Machine Music, che arrivò subito dopo, e nel quale l’artista mise nero su bianco più di 1 ora di feedback e rumori vari.

Il decennio successivo è caratterizzato dall’uscita di altri importanti lavori, frutto di un nuovo idillio: stavolta la scintilla è scoccata grazie all’incontro col chitarrista Robert Quine, che con Lou Reed realizzò gli album The Blue Mask (altra pietra miliare) e The Legendary Hearts: la fenomenale combo tiene botta il giusto, finché cioè l’attenzione dei recensori non si sposta esclusivamente su Quine, portando quindi Reed a sabotarne il lavoro prima in fase di missaggio e poi allontanandolo definitivamente salvo sporadiche riapparizioni in band.

Come per molti, gli anni Ottanta furono anche per lui croce e delizia, finendo comunque per rappresentare (vedi anche il rinnovato sodalizio con Cale per il requiem Songs For Drella, realizzato dopo la morte di Andy Warhol, e l’ultimo – in ordine cronologico – New York) probabilmente il suo decennio di maggior successo nonché l’ultimo nel quale produsse dischi all’altezza della sua statura artistica. Pur col rispetto con il quale ci si deve approcciare alle successive produzioni dell’uomo e del musicista, i Novanta e i Duemila suonano più come un consolidamento e una conferma, e fa sorridere pensare che la carriera enorme di un gigante quale fu Lou Reed si sia chiusa, quasi provocatoriamente, con quel Lulu suonato per lui dai Metallica che – forse più per devozione che effettiva convinzione – scelsero scientemente di essere relegati a sottofondo.

E forse anche per questo la sua è un’assenza che parla tanto, con la consapevolezza – la nostra – di avere bisogno oggi, in tempi in cui gli aggettivi musicali vengono prestati a uso e consumo di tante effimere cause, di un profeta che ci aiuti a fare un po’ d’ordine e sciogliere il bandolo della matassa di un circo infarcito di emuli pure bravissimi ma esclusivamente al soldo delle nostre nostalgie.

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