Nel suo libro La sospensione degli psicofarmaci Peter R. Breggin, psichiatra e ricercatore, spiega gli effetti collaterali degli psicofarmaci antidepressivi, antipsicotici, benzodiazepina, litio e il dubbio sull’effettiva utilità degli stessi.
E’ una questione che gli psicoterapeuti sostengono da sempre, osservandola quotidianamente nella pratica clinica.
Che gli psicofarmaci abbiano effetti iatrogeni non è una novità, i bugiardini degli stessi sono una lunga lista di evenienze possibili all’assunzione. Che gli effetti collaterali riguardino proprio i sintomi che questi dovrebbero risolvere è il paradosso messo in evidenza da sempre più numerose ricerche ultimamente. Non che anche questo non si sapesse da tempo, alcuni colleghi psichiatri e psicoterapeuti mi fanno presente che ai tempi della loro specializzazione venivano messi in guardia da docenti illuminati, sugli effetti degli psicofarmaci e esortati a procedere con cautela nelle prescrizioni.
Un buon uso degli psicofarmaci dovrebbe avere sempre l’obiettivo di mantenere la cura per il tempo strettamente necessario al paziente per prendere consapevolezza, attraverso percorsi psicoterapeutici, sull’origine della propria sofferenza emotiva e integrarla nel senso di identità personale in corso nel suo momento di vita.
E’ una caratteristica dei nostri tempi quella di essere intolleranti alla sofferenza, di escludere o non saper riconoscere certi stati emotivi che diventano sintomi, percepiti come un qualcosa di estraneo a sé; è una caratteristica dei nostri tempi quella di ricercare (il paziente) e prescrivere (il medico) medicine che diano l’illusione di poter smettere di soffrire senza sforzi e soprattutto senza farsi carico dei propri problemi.
La nostra vita è un susseguirsi di relazioni in cui costruiamo e sviluppiamo un’identità che ha caratteristiche di continuità e coerenza. L’emergenza di un sintomo, è un tentativo di mantenere nel cambiamento, un senso di continuità. L’esperienza della discontinuità, cioè quando ci succede e reagiamo in un modo che non ci saremmo aspettati da noi stessi, è un’esperienza perturbante di cui è necessario ricostruire il significato.
Le emozioni che consideriamo negative, non vanno curate (che di solito significa eliminate), ma utilizzate per costruire un cambiamento.
Il problema che si verifica con l’uso di psicofarmaci è che questi vanno ad attenuare le emozioni sgradevoli (e/o i sintomi che ne derivano) e con queste a confondere il percorso di comprensione e consapevolezza. Mentre la psicoterapia lavora in senso opposto.
Non voglio dire che la psicoterapia non abbia effetti collaterali, tutte le terapie comportano un rischio. Uno degli effetti collaterali di questa è la perdita di spontaneità verso se stessi e verso gli altri, non appena gli aspetti inconsapevoli entrano nella coscienza e diventano oggetto di attenzione. Per questo motivo si procede con cautela nell’intraprendere percorsi orientati ad aumentare la consapevolezza limitandosi alle aree che risultano critiche per la persona rispetto ai vissuti di sofferenza e al raggiungimento di obiettivi personali importanti.
La differenza rilevante secondo me sta nel fatto che la psicoterapia può portare a una crescita personale e all’aumento della complessità, mentre la psicofarmacologia porta soprattutto a se stessa, psicofarmaco chiama altro psicofarmaco in una spirale da cui il paziente è sempre meno capace di uscire.
Oggi la psicoterapia è purtroppo ancora privilegio di pochi che vogliono fare un investimento su se stessi e che hanno le risorse per farlo.
Chissà che gli studi del professor Breggin non siano un ulteriore stimolo ai piani alti per rendere la psicoterapia una cura convenzionata e fruibile da tutti, come avviene per molte altre terapie.