“Ogni volta mi fanno le stesse domande: preghi? Vai alla moschea? Segui i sermoni degli imam in televisione? Un giorno mi hanno prelevato un campione di sangue per sottoporlo al test del Dna, senza alcuna spiegazione”. Mahdi, un insegnante d’informatica e giornalista di Tunisi, è una delle 30mila persone che dal 2013 sono state poste sotto controllo ai sensi delle cosiddette “misure S17”.

Un’altra è Najamaeddine, un pescatore, che aveva un collaboratore poi trasferitosi in Siria, presumibilmente per aggregarsi allo Stato islamico: “Non sono mai stato arrestato, tanto meno condannato, e non mi dicono mai perché sono sottoposto a questi controlli. Non so cosa ho fatto. Se ho fatto qualcosa di sbagliato, allora mi arrestino invece di farmi stare costantemente con l’ansia addosso”.

Per non parlare di Lotfi, che intendeva andare a trovare la madre a Parigi, gravemente ammalata, e al quale dopo due ore di attesa all’aeroporto internazionale di Tunisi è stato impedito di salire a bordo.

Intendiamoci: la Tunisia ha il dovere di usare tutti i mezzi leciti per impedire attacchi contro i civili, in casa e all’estero. Il piano antiterrorismo entrato in vigore nel 2013, secondo le autorità tunisine, ha lo scopo di impedire il fenomeno delle partenze dei foreign fighters e di monitorare i movimenti di coloro che sono rientrati dalle zone di guerra. Ma l’applicazione delle “misure S17” va ben oltre questi obiettivi. I controlli sono decisi in maniera arbitraria, non c’è un ordine scritto o qualche spiegazione contro la quale fare ricorso e non c’è la minima supervisione giudiziaria. Le vite e le relazioni personali nonché le attività professionali e commerciali ne risentono profondamente.

Amnesty International ha registrato almeno 37 casi di persone cui, a partire dal 2016, è stato impedito di viaggiare da città a città all’interno della Tunisia. In altri 23 casi di persone cui è stato impedito di viaggiare all’estero, le “misure S17” appaiono del tutto arbitrarie. Ad esempio, nel caso di Mohamed Guerfel il viaggio all’estero non era da Tunisi al “califfato” ma verso la Libia, dove quotidianamente dal suo villaggio di confine andava ad acquistare legalmente merci da rivendere in Tunisia. Amnesty International ha chiesto alle autorità tunisine di emendare le “misure S17” in modo da porle in linea con le norme del diritto internazionale che vietano limitazioni alla libertà di movimento che non abbiano una base legale e che siano applicate in modo sproporzionato e arbitrario.

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