Uno studio scientifico sostiene che la produzione e il controllo della criptovaluta bitcoin sono corresponsabili del riscaldamento del nostro pianeta: se questa tecnologia continuerà a diffondersi, la temperatura globale si innalzerà di 2 gradi e supereremo le soglie previste dall'accordo di Parigi sul clima.
Il riscaldamento globale non è una bufala, quello che sta accadendo in questi giorni in Italia ce lo ricorda con severità, e con tutta la crudezza che le cronache non possono cancellare. Avrete già sentito dire che ciascuno di noi può combattere, nel suo piccolo, il riscaldamento globale. Anche chi produce criptovalute dovrebbe fare la sua parte, perché secondo una recente ricerca i Bitcoin potrebbero provocare un innalzamento della temperatura globale.
Questa valuta, slegata da qualsiasi autorità centrale o banca, viene prodotta collettivamente dalla rete. Fra le sue peculiarità ci sono, infatti, la mancanza di un server centrale e le tecniche di calcolo distribuito, ossia l’impiego di tanti computer connessi tra loro che mettono a disposizione la propria potenza di calcolo. Quello su cui ci vogliamo concentrare è che la produzione di bitcoin comporta richieste energetiche elevatissime.
Per dare una prima idea, una recente ricerca quantificava il dispendio annuo di energia per la produzione dei bitcoin in almeno 2,55 gigawatt di elettricità, e potenzialmente di 7,67 gigawatt in futuro. In altre parole, questa attività potrebbe già quest’anno consumare quanto un paese come l’Irlanda (3,1 gigawatt) e l’Austria (8,2 gigawatt).
Se la prospettiva secondo voi non è abbastanza sconvolgente, si aggiunge oggi uno studio dell’università delle Hawaii che è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature Climate Change, secondo cui nel giro di 15 anni (entro il 2033) i Bitcoin potrebbero far salire la temperatura globale di 2 gradi centigradi. Il condizionale è legato all’eventualità o meno che Bitcoin si diffonda con la stessa rapidità di altre tecnologie. Insomma, la criptovaluta potrebbe farci sforare il limite fissato a livello internazionale dall’accordo di Parigi sul clima.
Sempre nello stesso studio, i ricercatori riportano inoltre che nel solo 2017 la produzione di bitcoin ha causato l’emissione di 69 milioni di tonnellate di CO2 (anidride carbonica). Insomma, come per il paniere Istat, anche gli elementi che concorrono al surriscaldamento globale andrebbero aggiornati. Oltre a trasporti, cibo, riscaldamento e raffreddamento domestico, bisognerebbe conteggiare i Bitcoin.
Quello che si può fare è cercare alternative meno dispendiose dal punto di vista energetico per la produzione dei bitcoin. Come sottolinea il professor Camilo Mora, autore dello studio, “con la crescente devastazione creata da condizioni climatiche pericolose l’umanità si troverà a fare i conti con il fatto che il cambiamento climatico è reale e personale. Chiaramente, ogni ulteriore sviluppo delle criptovalute dovrebbe puntare in special modo a ridurre la richiesta energetica, se vogliamo evitare conseguenze potenzialmente devastanti come l’aumento di due gradi della temperatura globale”.
Come spesso accade non tutti concordano su metodi e calcoli di uno studio, e anche in questo caso non manca chi si è fatto avanti difendendo l’efficienza dei bitcoin. Possiamo discutere quanto vogliamo. Ma non investiamo tutto il nostro tempo a dibattere senza fare nulla di concreto, perché poi i cambiamenti climatici finiscono per avere l’ultima parola.