Secondo l'Aifa se l’azienda ospedaliera non fosse stata in grado di garantire l’erogazione diretta del farmaco, si poteva delegare il servizio alle farmacie pubbliche o private. Quasi nessuna regione, però, ha investito sul canale diretto, cedendo alla lobby dei farmacisti fin da subito. In questo modo continuiamo a spendere per lo stesso farmaco il quintuplo, il triplo o il doppio. Soldi in più- con prezzi diversi per ogni regione - che secondo le aziende sanitarie si potevano risparmiare
Ci sono centinaia di migliaia di medicinali, acquistati dalle aziende sanitarie, che ogni anno potrebbero essere distribuiti direttamente dagli ospedali e invece troviamo sempre più spesso nelle farmacie private con prezzi diversi per ogni regione. “Nei primi nove mesi del 2018 abbiamo pagato 640mila euro alle farmacie per la distribuzione di 158mila scatole di farmaci salvavita”, dice Corrado Busani, direttore del dipartimento farmaceutico dell’Ausl di Reggio Emilia, che fino a cinque anni fa erogava gli stessi medicinali quasi esclusivamente tramite sette farmacie ospedaliere e due presidi sul territorio. Con un costo di gestione tra 80 centesimi e un euro a confezione contro gli attuali 3,90 euro iva inclusa che deve versare alle farmacie urbane e 4,70 euro a quelle rurali. Soldi in più che secondo la asl si potevano risparmiare. Non solo qui ma in tutta Italia, dove la distribuzione per conto delle farmacie (dpc) o è di gran lunga prevalente sulla distribuzione diretta (cioè quella da parte delle strutture sanitarie pubbliche) o addirittura è l’unica esistente per una lunga lista di farmaci: tutti quelli prescritti al paziente per il primo ciclo terapeutico dopo le dimissioni dall’ospedale o dopo una visita specialistica ambulatoriale. E gli oltre cento tipi di molecole, alcune costosissime (da oltre mille euro a scatola), che l’Aifa nel 2004 ha inserito nel Prontuario della distribuzione diretta per la continuità terapeutica ospedale-territorio (pht), per assicurare assistenza, monitoraggio e appropriatezza della cura ai pazienti affetti da gravi patologie (tumori, epatite C, malattie rare, nefropatie, sclerosi multipla, artrite reumatoide, fibrosi cistica, epilessia, parkinson) che necessitano di controlli periodici nelle strutture specialistiche.
L’Aifa aveva precisato in una nota che se l’azienda ospedaliera non fosse stata in grado di garantire l’erogazione diretta del farmaco, si poteva delegare il servizio alle farmacie pubbliche o private. Quasi nessuna regione però ha investito sul canale diretto cedendo alla lobby dei farmacisti fin da subito. O dopo un lungo braccio di ferro come è accaduto in Emilia Romagna, dove le aziende sanitarie locali si sono date da fare per mettere in piedi un sistema di erogazione che ha sempre lasciato poco spazio ai privati. Tanto che il 26 gennaio 2017 le farmacie erano rimaste chiuse mezza giornata in segno di protesta. Un gesto che servì per arrivare il 21 febbraio a un’intesa con la Regione che avrebbe assicurato loro la distribuzione di 2,8 milioni di scatole fino a dicembre 2018 nell’ottica di riequilibrare il rapporto tra diretta e dpc. “Crediamo nel pubblico e sappiamo che può farcela, i nostri pazienti non si sono mai lamentati – commenta Busani -. Oggi invece paghiamo l’iva due volte, sul farmaco e sul servizio privato del farmacista. Inoltre il paziente da noi ritira immediatamente le confezioni senza ricette e prenotazioni”.
A difendere fino all’ultimo la distribuzione diretta è stata anche l’asl di Imperia. L’unica in Liguria che fino allo scorso febbraio non aveva ancora avviato convenzioni con le farmacie locali e che per 13 anni ha servito 18mila pazienti con cinque punti di distribuzione, tre ospedalieri e due sul territorio. E altri 1500 più critici con la consegna dei farmaci a domicilio. Un progetto grazie a cui l’asl nel 2010 ha vinto il concorso nazionale “Premiamo i risultati” del ministero della Pubblica amministrazione. “Non abbiamo mai assunto personale in più, farmacisti e magazzinieri dedicavano il 20 percento del loro tempo a questo servizio Oltre a dimostrare che il pubblico può funzionare benissimo, abbiamo garantito che i pazienti molto malati venissero seguiti direttamente dall’ospedale. Questo era l’obiettivo del prontuario pht di Aifa”, spiega Mara Saglietto, ex dirigente del settore farmacia nell’asl Imperia e promotrice del modello.
Dal primo marzo 2018 la Regione ha reso operativo un accordo per la distribuzione dei medicinali da parte delle farmacie, parallela a quella diretta, su tutto il territorio in modo che anche il distretto di Imperia si adeguasse. “Oggi l’azienda tira fuori dai 90 ai 100mila euro al mese per la dpc. Se la distribuzione diretta dei farmaci fosse adottata in tutta Italia – continua la dottoressa, che è stata anche consulente della Regione Liguria fino al 2015 – si potrebbero risparmiare milioni di euro. È una questione di scelte politiche, il sistema sanitario va potenziato, non ridotto, servono investimenti a lungo termine sull’assistenza territoriale per non intasare i pronto soccorso”. Federfarma (l’associazione dei titolari di farmacia), dal canto suo, sostiene che essendo le farmacie diffuse capillarmente sul territorio il cittadino può accedere ai farmaci più facilmente. “Ma il paziente non ha bisogno di ritirare le confezioni ogni settimana, al massimo una volta al mese oppure ogni due o tre mesi”, replica Saglietto. Annarosa Racca, presidente Federfarma Lombardia, aggiunge che “le Regioni per non sfondare il tetto della spesa farmaceutica ospedaliera dovrebbero trasferire alcuni di questi farmaci nella spesa convenzionata, che invece è in picchiata”. Anche per effetto dell’ingresso dei generici.
E mentre il tavolo di lavoro sulla farmaceutica istituito al Ministero dello sviluppo economico per riequilibrare il rapporto tra distribuzione diretta, dpc e convenzionata è fermo, lo stesso farmaco salvavita continua a essere pagato al farmacista con tariffe che variano da regione a regione. Per un antitumorale (da oltre mille euro) la Lombardia spende 18,91 euro iva inclusa (21,35 euro per le farmacie rurali), circa come il Lazio (18,30; 34,16 per le farmacie rurali), quasi cinque volte in più dell’Emilia Romagna, il triplo del Piemonte e il doppio dell’Abruzzo. In Calabria: 7,93. In Trentino: 7,80. In Puglia: 7,65. In Campania: 7,32 euro. In Liguria: 4,86. Nelle Marche: 4,27. In Molise: da 14,15 euro a 6,10 in base al fatturato. In Valle d’Aosta: da 9,69 a 7,54. In Veneto: da 9,62 a 7,80. In Friuli: da 9,27 a 7,93. In Alto Adige: da 8,41 a 7,68. In Basilicata: da 6,32 a 4,88. In Sardegna: 7,19. In Sicilia: 6,80. In Toscana: 5,85. E in Umbria: 5,90.
Una varietà di prezzi che in parte dipende sicuramente, lo ammette anche Federfarma, dai diversi rapporti di forza tra i rappresentanti dei farmacisti, dei grossisti e delle regioni. E poi, secondo il sindacato, “anche dall’assunzione di impegni da parte della farmacia, come quando si fa carico dei costi di servizi di interesse per la regione, per esempio il sistema informatico che monitora i flussi della dpc”. Giustificazioni a parte, continuiamo a spendere per lo stesso farmaco il quintuplo, il triplo o il doppio.