I cancelli dell’aula bunker del tribunale di Reggio Emilia in via Paterlini aprono alle 9,30 per l’ultima udienza del processo Aemilia, la più attesa. È il giorno della sentenza e alle ore 11 il collegio giudicante (Francesco Maria Caruso, Cristina Beretti, Andrea Rat), che da sedici giorni è riunito in camera di consiglio, entrerà dalla porta riservata ai giudici per pronunciarla. Sono 149 le persone rinviate a giudizio il 21 dicembre 2015: nel frattempo una è deceduta mentre un’altra, Karima Baachaoui, è da sempre latitante. Comunque vada sarà una sentenza storica, perché questo è il più grande processo alla ‘ndrangheta mai celebrato in Italia e perché alle pene definitive del rito abbreviato, inflitte pochi giorni fa dalla corte di Cassazione, aggiungerà il giudizio scaturito da due anni e mezzo di dibattimento con il rito ordinario: 195 giorni di scontri duri tra accusa e difese.
Aemilia è il processo alla mafia moderna che reinveste i propri guadagni nell’economia legale, che risponde nel nord Italia alla dilagante domanda di soluzioni illecite ma utili per evadere le tasse e per frodare il fisco, per vincere gli appalti e spremere i lavoratori privandoli di tutele e diritti nei cantieri. È la ‘ndrangheta della cosca Grande Aracri, una delle 167 famiglie, e neppure la più grande, attive nelle cinque province della Calabria. Ma è quella che tra l’Emilia Romagna e la bassa Lombardia ha saputo sbaragliare la concorrenza e conquistare il monopolio nell’edilizia, grazie alla determinazione del boss di Cutro, Nicolino Grande Aracri, e alla capacità dei suoi luogotenenti trapiantati al nord di farsi largo tra l’imprenditoria locale.
Ad attendere la sentenza di oggi sono i volti “presentabili” di questa consorteria, che secondo la Direzione Distrettuale Antimafia sono riusciti nel tempo ad entrare nei salotti buoni per ottenere favori e corsie preferenziali. Tra gli altri Giuseppe Iaquinta e il figlio Vincenzo, calciatore della nazionale; Alfonso Paolini, l’uomo mite che frequentava Silvio Berlusconi ed era di casa in Questura come amico e benefattore; Pasquale Brescia, titolare del maneggio abusivo dove amavano bazzicare imprenditori, poliziotti e carabinieri della provincia di Reggio Emilia.
Ma ad essere giudicati saranno anche gli imprenditori e i professionisti locali che con la ‘ndrangheta hanno pensato di stringere accordi e chiudere affari: Mirco Salsi, vicepresidente della Cna di Reggio Emilia, Giuliano Debbi, amministratore della società Bioera quotata in Borsa, Omar Costi, esperto reggiano di prestiti con interessi usurai e di false fatturazioni. E più di tutti la famiglia di Augusto Bianchini, titolare della omonima impresa di costruzioni operante a Modena, sotto accusa per gli accordi costruiti con la ‘ndrangheta e per i lavori pubblici acquisiti grazie ai buoni uffici di amministratori, dirigenti di servizi e politici locali, all’indomani delle violente scosse di terremoto che hanno colpito la pianura Padana nel 2012. Con l’aggravante di avere contaminato l’ambiente raccogliendo e riutilizzando in modo improprio migliaia di tonnellate di cemento amianto i cui effetti nefasti sulla salute li misureremo solo negli anni a venire.
Aemilia è il processo in cui per la prima volta in Italia tre accusati di appartenenza alla ‘ndrangheta sono diventati collaboratori di giustizia mentre erano imputati. Giuseppe Giglio, la mente economica delle truffe carosello sulle false transazioni tra paesi della Comunità europea, è già stato definitivamente condannato a sei anni nel rito abbreviato. Gli altri due, Salvatore Muto e Antonio Valerio, attendono la sentenza di oggi. Valerio in particolare ha fornito importanti riscontri alle indagini ed arricchito di nuovi elementi il fascicolo d’accusa, portando all’apertura del processo Aemilia 92 sugli omicidi che insanguinarono Reggio Emilia 26 anni fa: fu la resa dei conti tra le cosche Grande Aracri, Dragone, Vasapollo e Ruggiero. Valerio si è dichiarato colpevole nella deposizione in aula il 26 settembre 2017 e da allora ha iniziato il racconto del suo “romanzo criminale” che si è concluso solo nell’ultima udienza con l’affermazione finale: “A Reggio Emilia siete sotto scacco. Non è finito niente”. È lui che più di ogni altro testimone ha fornito elementi utili a capire l’evoluzione nel tempo della cosca Grande Aracri; lui che si considera uno ‘ndranghetista a statuto speciale e che ha disegnato in aula la ormai famosa galassia della ‘ndrangheta emiliana moderna, con tanti sistemi solari adiacenti che dialogano tra loro operando separati sui vari fronti ma uniti nell’obbiettivo assoluto di portare soldi e benefici alla cosca.
Il pubblico ministero Marco Mescolini, divenuto nel frattempo procuratore capo a Reggio Emilia, ha chiesto complessivamente per i 148 imputati, suddivisi a processo in corso nel rito ordinario e in un ulteriore abbreviato per nuove ipotesi di reato, oltre 1700 anni di carcere. Alle 11 sarà in aula con la collega Beatrice Ronchi, agli avvocati e alle parti civili, agli imputati e al pubblico, per ascoltare l’ultima parola di questo lunghissimo processo. A pronunciarla sarà il presidente Francesco Maria Caruso, nominato nel frattempo presidente del Tribunale di Bologna. L’ha scritta assieme a Cristina Beretti, giudice sotto scorta e presidente del Tribunale di Reggio Emilia, e all’altro giudice reggiano Andrea Rat. Oggi conta solo la loro voce.
(Le slide sono di Sabrina Natali del Movimento Agende Rosse)