L’occhio che uccide (1960) di Michael Powell

Bistrattato da pubblico e critica per oltre un decennio, Peeping Tom – Il guardone, questo il titolo originale – fu riscoperto attorno alla metà degli anni 70 da Martin Scorsese e Brian De Palma, nelle cui interviste l’opera di Powell era spesso indicata fra le principali muse della New Hollywood. Calcando la mano su una fotografia in technicolor, il film segue le tracce del serial killer Mark, un cineoperatore tormentato da un passato di abusi e ossessionato dal desiderio di catturare il terrore delle proprie vittime riprendendone l’ultimo sguardo. Scritta da Leo Marks, la pellicola è un manifesto cinematografico camuffato da thriller psicologico. Tra sangue e ombre, infatti, si fa largo una lucida riflessione sulla settima arte e sulla legittimità di mettere in scena la morte. Impeccabile in ogni aspetto tecnico, ciò che più disturba di questa visione è la sensazione di sentirsi corrotti dalle stesse pulsioni che avvolgono l’assassino. Componendo quadri in cui gli attori vengono in parte nascosti da elementi scenici, il cineasta britannico istiga di fatti l’appetito voyeuristico di ciascuno di noi, dimostrando come la nostra curiosità non sia poi troppo diversa dalla fame che alimenta il suo protagonista.