Gummo (1997) di Harmony Korine
Enfant prodige del cinema indipendente americano, Korine ha 24 anni quando presenta alla Settimana internazionale della critica di Venezia il suo primo lungometraggio. Ambientata a Xenia, Ohio, la pellicola non prevede alcuno sviluppo, ma procede piuttosto per piccole polaroid. A fare da collante per una trama tutt’altro che lineare è infatti un’umanità borderline, sparpagliata lungo i marciapiedi, accanto alle macerie del tornado che ha appena investito la città. Un viaggio nell’America “white trash”, popolata dai più osceni rigurgiti dello zio Sam, in compagnia di due ragazzini, Tummler e Solomon, che per campare uccidono gatti e li rivendono a un ristorante cinese. Con gli spiccioli guadagnati acquistano poi colla da sniffare e pagano le carezze di una prostituta down. Di un verismo soffocante, Gummo è però anche un film tremendamente estetico, scosso da sequenze al limite del surreale e che non fanno altro che agitare le contraddizioni di un’opera a un tempo ripugnante e meravigliosa. Resa ancor più forte dalla coscienza che quell’orrore esiste per davvero. E ci piace.