Happiness (1998) di Todd Solondz
Un American beauty (1999) ante litteram e più disfunzionale, così potrebbe essere descritto il terzo lungometraggio di un’altra icona del cinema indie. Abituato a flirtare con le curve del grottesco e della commedia nera e assistito da un cast in stato di grazia – quanto ci manchi Philip Seymour Hoffman -, Solondz gratta la superficie patinata della società americana, risvegliandone gli umori più spiacevoli. Happiness è l’affresco corale di una famiglia (e di un’umanità) devastata da fallimenti, solitudini e dal tragico vizio dell’incomunicabilità. Di un’ironia cruda e urticante, il film violenta il sogno americano, rosicchiandone ogni perbenismo sino alla sua scena più cupa, quando Bill confessa al figlio di essere un pedofilo. Girato sotto la supervisione di uno psicologo al fine di proteggere la mente del giovane attore, questo dialogo ribalta letteralmente lo stomaco dello spettatore. Sino a quel momento, infatti, pur offrendo tutti gli indizi del terribile crimine, l’autore lascia che il pubblico in qualche modo empatizzi con un uomo tanto fragile. Ottenendo dunque l’effetto finale di far sentir ciascuno complice dello stupro.