Il pubblico ministero Marco Mescolini, divenuto nel frattempo procuratore capo a Reggio Emilia, aveva chiesto complessivamente per i 148 imputati, suddivisi a processo in corso nel rito ordinario e in un ulteriore abbreviato per nuove ipotesi di reato, oltre 1700 anni di carcere. Trai condannati l'ex calciatore Iaquinta (2 anni) e il padre (19)
Dopo due anni e mezzo di dibattimento e due settimane di camera di consiglio è stata emessa una sentenza che può essere definita storica per la presenza della ‘ndrangheta al Nord. Il verdetto del Tribunale di Reggio Emilia ha riguardato 148 imputati: per 119 persone è arrivata una sentenza di condanna, 29 sono state le assoluzioni. I giudici hanno dichiarato anche sentenza di non luogo a procedere per intervenuta . Tra i condannati anche l’ex attaccante della Juventus e della Nazionale campione del mondo Vincenzo Iaquinta e il padre. Al primo sono stati inflitti due anni e al secondo, accusato di associazione mafiosa, 19. Per l’ex calciatore la Dda aveva chiesto sei anni, per reati di armi. Padre e figlio se ne sono andati dall’aula urlando “vergogna, ridicoli“. “Il nome ‘ndrangheta non sappiamo neanche cosa sia nella nostra famiglia. Non è possibile. Andremo avanti. Mi hanno rovinato la vita sul niente perché sono calabrese, perché sono di Cutro. Io ho vinto un Mondiale e sono orgoglioso di essere calabrese. Noi non abbiamo fatto niente perché con la ‘ndrangheta non c’entriamo niente. Sto soffrendo come un cane per la mia famiglia e i miei bambini senza aver fatto niente” dice Vincenzo Iaquinta fuori dal tribunale.
Erano state 149 le persone rinviate a giudizio il 21 dicembre 2015: nel frattempo una è deceduta mentre un’altra, Karima Baachaoui, è da sempre latitante. Una sentenza importantissima nella lotta contro la criminalità organizzata, perché questo è il più grande processo alla ‘ndrangheta mai celebrato in Italia e perché alle pene definitive del rito abbreviato, inflitte pochi giorni fa dalla corte di Cassazione, aggiunge il giudizio scaturito da due anni e mezzo di dibattimento con il rito ordinario: 195 giorni di scontri duri tra accusa e difese. Il Tribunale ha accolto per la stragrande maggioranza le richieste dell’accusa.
Aemilia è il processo in cui per la prima volta in Italia tre accusati di appartenenza alla ‘ndrangheta sono diventati collaboratori di giustizia mentre erano imputati. Giuseppe Giglio, la mente economica delle truffe carosello sulle false transazioni tra paesi della Comunità europea, è già stato definitivamente condannato a sei anni nel rito abbreviato. Gli altri due, Salvatore Muto e Antonio Valerio, attendono la sentenza di oggi. Valerio in particolare ha fornito importanti riscontri alle indagini ed arricchito di nuovi elementi il fascicolo d’accusa, portando all’apertura del processo Aemilia 92 sugli omicidi che insanguinarono Reggio Emilia 26 anni fa: fu la resa dei conti tra le cosche Grande Aracri, Dragone, Vasapollo e Ruggiero. Valerio si è dichiarato colpevole nella deposizione in aula il 26 settembre 2017 e da allora ha iniziato il racconto del suo “romanzo criminale” che si è concluso solo nell’ultima udienza con l’affermazione finale: “A Reggio Emilia siete sotto scacco. Non è finito niente”. È lui che più di ogni altro testimone ha fornito elementi utili a capire l’evoluzione nel tempo della cosca Grande Aracri; lui che si considera uno ‘ndranghetista a statuto speciale e che ha disegnato in aula la ormai famosa galassia della ‘ndrangheta emiliana moderna, con tanti sistemi solari adiacenti che dialogano tra loro operando separati sui vari fronti ma uniti nell’obbiettivo assoluto di portare soldi e benefici alla cosca.
Il pubblico ministero Marco Mescolini, divenuto nel frattempo procuratore capo a Reggio Emilia, aveva chiesto complessivamente per i 148 imputati, suddivisi a processo in corso nel rito ordinario e in un ulteriore abbreviato per nuove ipotesi di reato, oltre 1700 anni di carcere.