'ndrangheta

Sentenza processo Aemilia, così tre anni fa l’Emilia scoprì le infiltrazioni del clan e i contatti con politica e imprenditoria

Erano le 13,15 di oggi e quando ha terminato sui quaderni degli appunti si contavano oltre 1200 anni di carcere ai quali sono stati condannati 119 dei 148 imputati. Per gli imputati per 416 bis sono arrivate anche pene più pesanti di quelle chieste dalla pubblica accusa. Pene pesanti anche per gli imprenditori emiliani che con la ‘ndrangheta ci hanno fatto affari

Era il 28 gennaio del 2015 quando l’Emilia-Romagna scoprì che non era immune dalle infiltrazioni mafiose. Gli arresti colpirono il clan Grande Aracri e i suoi contatti con la politica e l’imprenditoria. Un’inchiesta dai grandi numeri che però è arrivata a tempo di record a due sentenze – una diventata definitiva per il processo in abbreviato sei giorni fa – e una oggi. Quella letta per due ore dal presidente  Francesco Maria Caruso “in nome del popolo italiano”. Erano le 13,15 di oggi quando il giudice Caruso ha iniziato la lettura della sentenza e alla fine sui quaderni degli appunti si contavano oltre 1200 anni di carcere ai quali sono stati condannati 119 dei 148 imputati. Tra gli altri 29, tutti imputati minori, si contano 24 assoluzioni e cinque prescrizioni del reato. I personaggi di spicco del processo, accusati di appartenere alla cosca Grande Aracri, sono tutti condannati e l’impianto accusatorio regge alla sentenza di Reggio Emilia come quella di Bologna.

Diciannove anni di carcere a Giuseppe Iaquinta, padre del calciatore campione del mondo in Germania Vincenzo, a sua volta condannato a due anni. I due sono usciti urlando dall’aula bunker dopo la sentenza. Trentotto anni complessivi per Michele Bolognino, il solo tra i sei capi che ancora attendeva la decisione dei giudici avendo preferito il rito ordinario di Reggio Emilia all’abbreviato di Bologna. Per gli altri accusati del capo 1, il 416 bis, sono arrivate anche pene più pesanti di quelle chieste dalla pubblica accusa. E poi 22 anni e 9 mesi a Pasquale Brescia, 18 a Maurizio Cavedo, 23 ad Antonio Floro Vito, 21 al fratello Gianni, 25 a Vincenzo Mancuso, 15 anni e 8 mesi ad Alfonso Paolini, 19 anni e 10 mesi a Gianluigi Sarcone, il fratello del capo reggiano Nicolino già condannato a Bologna. Pene pesanti anche per i membri della famiglia Muto (12, 20 e 26 anni ai tre omonimi Antonio, residenti a Reggio) e per quelli della famiglia Vertinelli (29 anni a Giuseppe e quasi 30 a Palmo).

Pene pesanti anche per gli imprenditori emiliani che con la ‘ndrangheta ci hanno fatto affari: alla famiglia Bianchini di Modena, in particolare, che ha lucrato sul terremoto del 2012, non è stato riconosciuto il concorso esterno ma la condanna è stata a 9 anni e 10 mesi per Augusto e a 4 anni per la moglie Bruna Braga. Ci sono poi 4 anni e 6 mesi per l’imprenditore reggiano Mirco Salsi, ex vice presidente della CNA. Impressionante la mole dei beni confiscati tra imprese, auto, moto, camion, conti correnti, immobili. Stabiliti anche in via definitiva i risarcimenti a molte parti civili, tra le quali spiccano le due Camere del Lavoro di Reggio e Modena, con oltre mezzo milione di euro a testa per la gestione della mano d’opera da parte della ‘ndrangheta nei cantieri e il danno conseguente all’attività sindacale. Quarantasette le persone che infine sono state segnalate dal Tribunale alla Dda per valutare i reati di falsa testimonianza e di reticenza commessi in aula durante i due anni e mezzo di testimonianze. Non erano dunque, secondo i giudici, i giornalisti che raccontavano cose false sul processo, come sostenuto dalle difese: erano piuttosto i testimoni intimoriti, minacciati o collusi.