Andare a teatro, sedersi in quarta fila, o in quinta, il palco lì vicino, la giacca a vento sulle gambe accavallate e ritrovarsi – mezz’ora dopo, diciamo – in piedi a (tentare di) ballare il Gioca Jouer, indossando un cappellino rosso pieno di lucine intermittenti da Babbo Natale. A ottobre, però. Se non fosse disgustosamente riduttiva, una buona sintesi di Up&Down sarebbe questa. Via le regole che valgono là fuori, via i filtri delle convenzioni sociali, via la polvere del senso comune. Via tutto: Up&Down vi spoglia e vi getta sotto a una doccia solare di emozioni – c’è tutto l’arcobaleno, dalla commozione alla gioia, e spesso le lacrime si confondono. Up&Down spezza le catene e rompe anche gli ormeggi: fa il pienone in tutti i teatri d’Italia e – diventato film – passeggia su chilometri di tappeti rossi, dal Festival del cinema di Venezia alla Festa del cinema di Roma. Un fenomeno da indagare, ormai: riempie giornali, televisioni e radio, per Livorno – dov’è nato – è diventato un orgoglio come se fosse la squadra di calcio.
1 /16 Giannini durante le prove di uno spettacolo
Da una parte il palcoscenico della tournée che nei prossimi giorni sarà a Roma, Genova, Firenze, Bologna (qui tutte le date): il protagonista dovrebbe essere Paolo Ruffini, che però – in un canovaccio senza trama – da mattatore è anche maltrattato dagli altri attori – cinque con la sindrome di Down e uno autistico – cioè Erika Bonura, Giacomo Lagorio, Andrea Lo Schiavo, Federico Parlanti, David Raspi, Giacomo Scarno. Uno show che sciaborda il pubblico, lo abbraccia e lo invita a giocare e ballare insieme. Una discoteca-ludoteca dello spirito, luna park dell’essere senza filtri, un ricostituente. Tutti dentro, abbattute le barriere della diversità ma soprattutto del teatro, a partire dal sipario che a fine spettacolo rimane aperto, con gli spettatori che salgono sul palco e gli attori che scendono in platea.
Dall’altra parte il grande schermo di molte sale d’Italia con un film normale come recita il sottotitolo di un racconto in un’ora e un quarto – si chiama anche questo Up&Down – che indaga su cos’è normale e cosa no. Anche in questo caso insieme alla compagnia teatrale livornese Mayor Von Frinzius che dal 1996 ha prodotto una ventina di spettacoli mettendo insieme sul palco decine di attori, in gran parte disabili e in particolare con sindrome di Down e adolescenti in età da liceo. In tutto, in questo momento, sono una novantina, con 4 registi, Aurora Fontanelli, Cecilia Daniselli, Rachele Casali e Marianna Sgherri. Il quinto (che è anche direttore artistico) è Lamberto Giannini, 56 anni, professore di storia e filosofia al liceo, pedagogista, eroico per il solo fatto di seguire quasi tutta la tournée – da Catanzaro a Riva del Garda – senza perdere una sola ora di lezione nel suo liceo. E’ lui a spiegare a ilfatto.it il nome della compagnia: Mayor Von Frinzius. “Non vuol dire niente“.
Professor Giannini, è arrivato il momento di confessare: voi dovreste rispondere di sfruttamento.
Sì, è vero: noi siamo dei grandi sfruttatori della disabilità perché la disabilità è una grande risorsa. Forse è questa la vera rivoluzione. Non è tanto per dire: dal punto di vista attoriale questi ragazzi hanno un qualcosa di diverso, di anomalo. E nel teatro cerchiamo sempre il valore dell’anomali. Loro ce l’hanno naturale quindi partono in netto vantaggio.
Lei va anche a dire in giro impunemente che è spietato con i suoi attori.
E’ la parola giusta: spietato vuol dire senza pietà, no? Il disabile ha bisogno di tutto, ha bisogno di tanto, ma non ha bisogno della pietà. Perché la pietà si fa in forma di pietismo. Il disabile ha bisogno di pietas che è un concetto diverso, un concetto antico. Pietas vuol dire la comprensione vera. Quindi io non sono cinico, io sento i loro bisogni, cerco di affrontarli, ma non posso avere la pietà di tutti i meccanismi di bisogni indotti che al disabile sono stati costruiti. Perché gli farei del male, non lo aiuterei a diventare attore che invece è il mio grande desiderio.
Così gli tocca anche lavorare come dice una battuta di Federico Parlanti nel vostro spettacolo: come si stava bene negli anni Sessanta quando noi disabili non si faceva nulla dalla mattina alla sera, serviti e riveriti.
E invece ora gli tocca fare teatro, sport. Tutte le scemate della vita con l’emancipazione sono toccate anche a loro: l’hai voluta la bicicletta?
Una forma di sfruttamento però c’è: è quella di Paolo Ruffini. Vi dà una visibilità che probabilmente non avete mai avuto in questi vent’anni e più in cui avete fatto i vostri spettacoli.
E non è uno sfruttamento strumentale perché Paolo questo spettacolo l’ha fortemente voluto, c’ha creduto. Molte persone credono sia un’associazione d’interesse, di reciproca convenienza. In realtà Paolo c’ha creduto, forse anche più di me. A me metteva in crisi il fatto che la compagnia abituata ad un determinato lavoro potesse essere snaturata. Invece abbiamo tentato di fondere due mondi mantenendo ognuno le proprie caratteristiche.
Lei invece? Uno pensa a un professore di filosofia del liceo e pensa alla barba lunga, la maglia a collo alto, gli occhialini tondi. Invece lei gira sempre in maglietta e scarpe da tennis, è sempre fuori dalle regole. E cosa c’entra la filosofia con il teatro?
C’entra tanto perché la filosofia è mettere in luce ciò che non è chiaro, svelare gli aspetti più oscuri dell’esistenza. Il teatro per me è sempre stato un corroborante della filosofia. Io sono anomalo: qualcuno pensa che ci marci, ma io mi metto la maglietta perché ci sto più comodo. Ognuno ha un proprio modo di essere. Quando 22 anni fa è partita l’esperienza della compagnia Mayor Von Frinzius, è partita nel momento in cui sono diventato insegnante di filosofia: è una ricerca di profondità andata in contemporanea. E mi ha permesso di avvicinare due mondi: la compagnia è formata da 90 attori, ci sono tantissimi disabili e tantissimi adolescenti.
E lei cosa c’entra?
Il fatto che io da insegnante appartenga anche se non da giovane ma a un mondo giovanile, mi ha permesso di creare questo gruppo di fusione tra giovani e disabili che penso sia una ricchezza enorme perché determinate problematiche che altre città hanno, Livorno non le ha. Non è merito della compagnia, ma anche merito della compagnia. Noi abbiamo una visione diversa perché loro sono diventati attori, sono diventati altro. Questa energia crea dei meccanismi positivi. Una sorta di scudo emotivo. Anche per gli adolescenti per esempio parlare di sesso è molto complicato. Ma quando c’è il disabile meno, perché il disabile ha meno filtri e crea meno filtri anche all’altro.
E’ una forma di libertà.
Non è completamente libero, è imbarazzato, imbrigliato anche lui in schemi, ma diversamente imbrigliato.
La libertà in questo senso: quello dei vostri spettacoli è un linguaggio di libertà. Dalle convenzioni sociali, dal politicamente corretto, dal senso comune che limita il pensiero, appunto, al pensiero che il disabile è “poverino”. E’ un linguaggio dell’accoglienza, del diverso.
La nostra è un’accoglienza trasgressiva e irriverente. Cerchiamo in modo non convenzionale di scardinare alcuni meccanismi perché le persone per farle riflettere non sempre vanno orientate, vanno anche disorientate. Non sempre vanno piazzate in un punto, vanno anche spiazzate.
E lo sapete che avete sbagliato periodo storico, sì? L’accoglienza non va di moda, di nessun tipo.
Il nostro spettacolo dello scorso anno si chiamava Anacronistici. Noi siamo fuori da un meccanismo, fuori da un tempo. Le cose anacronistiche creano una malinconia particolare, ma anche un interesse particolare.
E la risposta a teatro fino a questo momento è stata sorprendente.
Il pubblico ci sta mandando dei rimandi incredibili. Penso che nei nostri spettacoli ci sia la capacità di far sentire il pubblico parte dello spettacolo. La gente esce piangendo, emozionandosi, contenta di aver partecipato: sei dentro un meccanismo. Non sei andato solo a guardare una cosa: ne fai parte.
L’impressione è che questa esperienza non poteva che nascere a Livorno, dove ci si contamina non per un fatto di ideologia, ma per il fatto che lì non ci si prende mai sul serio fino in fondo.
E’ una città disabile, Livorno. In senso positivo: non riesce a prendersi sul serio. Questo crea moltissimi limiti, però crea anche delle possibilità incredibili perché puoi fare delle cose che non potresti fare da altre parti. Un po’ perché inizialmente gli importa una sega di cosa fai. Poi piano piano però, quando capisce che esisti, allora diventa come succede ora con lo spettacolo e col film: Livorno ci incoraggia, ci spinge, ci dice: dai dai. Come se fossimo…
La squadra di calcio che tra l’altro in serie B va malino?
Come se avessimo la maglia amaranto e rappresentassimo l’orgoglio di Livorno: dai, andate a Milano, fate vede’ chi siete. Eravamo al festival di Trani e sui social abbiamo detto che eravamo in finale, sono arrivate valanghe di messaggi. Quando ho scritto su facebook che avevamo vinto, è esploso tutto, come una curva. E la gioia non sta tanto nella vittoria, ma aver creato qualcosa che è parte integrante di questo tessuto sociale.
E però anche Livorno passa un periodo un po’ particolare, appare circondata: la Lega ha vinto a Pisa, a Cascina c’è Susanna Ceccardi. Anche a Livorno si teme il ballottaggio e l’arrivo del Babau. E’ finita la storia di Livorno accogliente, solidale, città delle Nazioni?
Quella storia lì non è finita. Perché comunque appartiene al modo di essere, al dna. Sicuramente non esistono isole e Livorno fa parte dello stesso contesto storico. Il problema non è il Babau, ma chi ha generato le condizioni perché il Babau potesse arrivare.
Nel senso.
Nel senso che quando chi dovrebbe fare cose di sinistra, non fa cose di sinistra, inevitabilmente ci mette in mano a situazioni che diventano difficili da arginare. E’ importante riprendere l’idea di cos’è il senso dell’uguaglianza. Come Democrito: gli atomi sono tutti uguali. Ma il senso vero della partecipazione e dell’uguaglianza. Se poi viene fuori una distinzione tra i maestrini che son sempre bravi, che presumono di saper far tutto, contro i beceri che urlano, alla fine è ovvio che tutta la Nazione viene coinvolta e non c’è capacità di avere immunità. Nessuno può averla. Però qualunque cosa accada, gli argini esistono culturalmente: Livorno certe caratteristiche le mantiene.
L’INTERVISTA IN DIRETTA DALLA REDAZIONE DEL FATTOQUOTIDIANO.IT