Sembra un film: c’è la corruzione internazionale, i faccendieri, una multinazionale, il dittatore di un Paese stremato che intasca la tangente, il depistaggio. Invece è la cruda documentazione di quel che avviene oggi: la sistematica perpetuazione di un modus operandi che avrebbe dovuto essere sconfitto 20 anni fa.

Il 17 Dicembre del 1997, a Parigi, viene approvata la Convenzione Ocse che impone a tutti gli Stati aderenti di considerare reato per le persone fisiche e giuridiche la corruzione di pubblici funzionari stranieri per ottenere indebiti vantaggi nel commercio internazionale. Un anno dopo, il 10 Novembre 1998, Bill Clinton convoca una conferenza stampa per annunciare che, grazie a quella convenzione, il mondo è cambiato.

La convenzione è stata ratificata da 32 Stati, perché la corruzione distorce la libera concorrenza, indebolisce i principi della democrazia, ed è considerata “intollerabile” ai fini della salvaguardia degli “Stati vittime”. E da allora sono fiorite cattedre universitarie dedicate all’etica degli affari: il primo programma è stato costituito alla Business School di Harvard, e altri hanno seguito nel Regno Unito, nei Paesi Bassi, in Francia e in Svizzera (nel nostro mondo accademico ha fatto più fatica ad affermarsi). Dall’inizio degli anni 2000 le grandi aziende si sono poi dotate di Codici Etici che avrebbero dovuto lanciare una nuova frontiera della governance.

Ma possiamo oggi dire che il mondo sia cambiato? L’Occidente e i Paesi europei si sono dotati di una legge che punisce la corruzione internazionale e poi l’hanno sistematicamente aggirata.

La tedesca Siemens, per fare affari in Italia ha pagato le tangenti ai manager dell’Enel; la joint venture finlandese-tedesca-italiana Knorr-Bremse, per la costruzione della metropolitana di Mosca, ha creato fondi neri, triangolati per Panama e finiti in tasca ai dirigenti russi. Negli Stati Uniti, in Francia o Inghilterra spesso si muovono direttamente gli apparati di Stato quando c’è da portare a casa appalti per la costruzione di reti idriche, ponti, porti nei paesi del terzo mondo, in Iraq o Afghanistan. Sono loro che accompagnano le imprese, fanno da tramite con i governi e all’occorrenza indicano a chi pagare le tangenti.

Dall’Africa all’India, dal Medioriente all’Europa dell’est, dal Brasile all’Argentina, sembra impossibile fare un affare senza transitare da uno sponsor, o “agente” locale. Anche perché l’approccio più diffuso è: “Se per quell’operazione vogliono soldi e io non glieli do, li pagherà qualcun altro e io perderò l’affare”.

Sicuramente in buona compagnia, il caso Eni descritto in questo libro è emblematico di una modalità che tutti sappiamo esistere ma che non viene quasi mai alla luce nei dettagli. Raramente capita infatti che ci sia qualche giornalista coraggioso e/o qualche Ong in grado di denunciare il puntuale svolgimento del malaffare corruttivo. Oppure, se questo viene scoperto e gli inquirenti cominciano a indagare, spesso non riescono a completare l’opera arrivando a processo come nei casi qui discussi, perché vengano fermati da governanti che non vogliono “interferenze” giudiziarie in affari ritenuti di interesse nazionale. È quello che è successo nel Regno Unito quando Tony Blair ha bloccato l’indagine del Serious Fraud Office sulle tangenti pagate dalla BAE Systems in Arabia Saudita. Neppure Matteo Renzi l’ha presa bene quando è venuto a sapere che la Procura di Milano stava indagando su Claudio Descalzi per lo scandalo raccontato in questo libro.

L’Ocse dovrebbe prendere nuove iniziative. Più mirate. Per esempio potrebbe creare un registro unico dei contratti internazionali, rendendo obbligatoria per ogni società la comunicazione di tutti i contratti in corso con i nomi degli agenti ingaggiati (locali e non) e, nel caso si venga a sapere, la segnalazione che in un tal Paese si è verificata una richiesta di tangenti.

Anziché codici etici e regole che nessun’autorità indipendente ha gli strumenti per verificare, alle multinazionali si dovrebbe chiedere di mettere al corrente il suo consiglio d’amministrazione delle segnalazioni fatte al registro Ocse prima di ratificare qualsiasi affare internazionale. Il caso raccontato in questo libro dimostra infatti che persino nei Cda delle grandi aziende internazionali si possono trovare uomini e donne liberi e indipendenti pronti a battersi per una governance sana e adeguata. Ci deve solo assicurare che il sistema di controllo aziendale faccia arrivare loro le informazioni necessarie per vagliare con coscienza ogni affare, anziché spingerli a dimettersi per non correre il rischio di avallare ciò che da decenni si dice di voler cambiare. Infine sui tavoli internazionali è cruciale trovare un modo per impedire ai dittatori o ministri dei Paesi destinatari della corruzione di farla sempre franca, perché protetti dall’immunità.

 

 

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