Non partigiani, ma terroristi. Perché il loro obiettivo non era la ribellione del popolo curdo contro un oppressore, ma la sua sottomissione alla sharìa. Creando una teocrazia, un califfato islamico anche “con azioni di combattimento e di martirio indiscriminato” e “anche” coinvolgendo “civili”. Erano stati i giudici della Corte d’assise d’appello di Trento a riconoscere che coloro che volevano ritornare alle montagne ovvero i componenti dell’organizzazione Rawthi Shax, derivata direttamente da Ansar Al Islam, erano jihadisi pronti ad agire. E questa è anche la convizione dei giudici della Cassazione che pochi gorni fa hanno depositato le motivazioni della sentenza dell’11 maggio scorso con cui hanno confermato le condanne per i quattro imputati che avevano scelto il rito abbreviato nel processo contro la cellula, guidata dal mullah Krekar, fondatore e leader di Ansar Al Islam e di Rawthi Shax.
Ad Abdul Rahman Nauroz, che viveva a Merano in un alloggio pagato dai servizi sociali ed è ritenuto il capo del gruppo, Eldin Hodza, kosovaro e i curdi Abdula Salih Ali Alisa, alias Mamosta Kawa, e Hasan Saman Jalal, alias Bawki Sima, erano stati inflitti quattro anni e restano detenuti nelle carceri di massima sicurezza di Rossano Calabro e Nuoro. Prosegue con il rito ordinario il processo per Krekar che è imputato insieme ad altre cinque persone – Rahim Karim Twana, Hamasalih Wahab Awat, Abdul Zana Rahim, Jalal Kamil Fatah e Bakr Hamad – con l’accusa di associazione per delinquere con finalità terroristiche. Reato (il 270 bis) riconosciuto a maggio dagli ermellini per i loro coimputati. Usciti dall’inchiesta per archiviazione gli altri uomini che erano stati arrestati nell’operazione del Ros del 19 novembre 2015.
Se è vero che per Krekar ovvero Faraj Ahmad Najmuddin, era fondamentale la preparazione ideologica degli adepti – attraverso la chat room dell’organizzazione – è anche vero che Rawthi Shax, rispetto ad Ansar Al Islam, è nata in Europa e aveva come missione l’intervento in Kurdistan raccogliendo proseliti e finanziamenti, mimetizzandosi anche nelle forze di polizia e nelle intelligence occidentali, e anche inviare combattenti. Ed è in quest’ottica, ragionano i giudici, che assume importanza la partenza di Hodza Eldin per la Siria: proprio per contribuire all’instaurazione di un califfato islamico. Senza escludere eventuali azioni in Europa se necessarie. Diceva Hasan Saman, intercettato durante le indagini: “È buono morire per Allah, qualsiasi cosa io faccia per Allah è come se non avessi fatto abbastanza”. E ancora: “Quando verrò ammazzato i miei figli saranno fieri (…), non avrò pace fino a che non ucciderò qualche ebreo sarà bello quando mullah Omar (storico leader dei talebani, ndr) verrà a trovarci tra le montagne”. Sempre Saman (luglio 2012) diceva commentando un attentato in Bulgaria contro un autobus di turisti israeliani: “È una benedizione di Dio”.
Che poi gli atti non fossero in preparazione in Italia questo non depotenzia il reato. Conta, scrivono gli ermellini in motivazione, la “precisa volontà di contribuire – come gruppo e come singoli aderenti – alla realizzazione di uno o più atti di violenza con matrice terroristica” e “tali attività, sia pure prospettiche vanno, dunque, individuate e qualificate e possono consistere anche in atti di terrorismo compiuti in altre regioni del mondo, essendo rilevante a fini di punibilità che la condotta partecipativa sia commessa, in tutto o in parte, in territorio italiano“. E la cellula smantellata era operativa tra Merano e Bolzano. I militanti jihadisti erano anche pronti, secondo le indagini del Ros, a colpire diplomatici e parlamentari norvegesi, come ritorsione per l’arresto di Krekar, che non è stato estradato in Italia e che ha chiesto più volte di essere sentito di fare dichiarazioni spontanee. Richiesta respinta dai giudici perché l’imputato è a piede libero e non può lasciare la Norvegia. Per il religioso, che pregò per gli stragisti islamici entrati in azione nella redazione di Charlie Hebdo, era stata revocata l’ordinanza di custodia cautelare, ma poi era stato rinviato a giudizio. Krekar ha una lunga storia giudiziaria che si incrocia anche con l’Italia. L’uomo è approdato in Norvegia nel 1991 con la famiglia ed ha ottenuto lo status di rifugiato. Dopo gli attentati dell’11 settembre è stato più volte arrestato e rilasciato dalle autorità di Oslo. Dalle indagini svolte erano emersi suoi contatti con i vertici di Al Qaeda ed in una perquisizione gli è stata sequestrata un’agenda che conteneva il numero telefonico di Al Mussab Al Zarqawi. Un uomo pericoloso per molti servizi segreti tanto che, secondo alcune inchieste giornalistiche, Krekar sarebbe stato anche oggetto anche di un tentativo della Cia – sventato dalle autorità norvegesi – di prelevarlo in un’operazione di extraordinary rendition simile a quella fatta a Milano per Abu Omar. Per lui il processo in Italia ricomincia il prossimo 10 dicembre.