A pochi giorni dal primo, vero test elettorale per il tycoon, la conseguenza più evidente dei due anni e mezzo di presidenza è la trasformazione interna di entrambi gli schieramenti, come si può ben vedere dalle esternazioni pubbliche dei loro candidati
Se c’è un dato politico che queste elezioni di midterm rendono evidente è la trasformazione interna che i due maggiori partiti, repubblicano e democratico, hanno subito in questi anni. Il GOP non ha resistito all’ascesa travolgente di Donald Trump e ora appare un partito molto meno ricco, articolato, diverso, rispetto a un paio di anni fa. Il nazionalismo populista incarnato e rivendicato dal presidente ha fatto piazza pulita di aree e temi storicamente importanti del mondo conservatore – in particolare, le vecchie fedeltà atlantiche, i neocons, i repubblicani più liberal della East Coast, l’ala libertaria. I democratici hanno conosciuto una polarizzazione analoga e uno spostamento a sinistra del partito, che si rivela nelle posizioni di molti candidati a queste elezioni di midterm – ma anche nei possibili candidati alla presidenza nel 2020.
Iniziamo dai repubblicani. È anzitutto la retorica politica di Trump – esplicita, incurante di prove e verifica dei fatti, con frequenti accenni sessisti ed etnici – a essere diventata moneta corrente nel partito. Duncan Hunter, attuale deputato per il 50esimo distretto in California, ha attaccato il suo rivale, il democratico Ammar Campa-Najjar, accusandolo di aver ricevuto l’appoggio dei Fratelli Musulmani. Non solo i Fratelli Musulmani non hanno mai dichiarato il loro sostegno a Najjar; ma Najjar, che è di padre palestinese e madre messicana, è anche cristiano. In Florida, il candidato repubblicano alla carica di governatore, Ron DeSantis, ha usato il termine monkey (come verbo) nei confronti del suo rivale democratico, e afro-americano, Andrew Gillum. E di recente Kevin McCarthy, il leader repubblicano della Camera, ha spiegato in un tweet che George Soros, Michael Bloomberg e Tom Steyer “vogliono comprare le elezioni”. A nessuno è sfuggito che i tre sono di origine ebraica.
Montature, sottintesi etnici e distorsioni varie hanno sempre fatto parte della lotta politica, da una parte e dall’altra. Quello che però la presidenza Trump ha fatto è portare a galla umori e posizioni un tempo confinati alle frange più radicali e di destra del mondo conservatore, rendendoli parte del discorso pubblico corrente. Quando, di recente, Trump ha urlato in un comizio “sono un nazionalista! Non c’è niente di male. Usate quella parola”, nessun repubblicano di rilievo ha avuto nulla da dire. Eppure generazioni di politici repubblicani si sono tenuti lontano da quel termine – nazionalista – troppo facilmente associabile a dittature e regimi autoritari europei del Novecento. Patriot, o più semplicemente, American, sono state le parole che qualsiasi repubblicano ha utilizzato per decenni per esibire il proprio amor patrio. Quello che Trump fa è molto diverso: e cioè, lasciar entrare nel discorso politico – e nel bagaglio ideologico repubblicano – un termine sinora utilizzato soprattutto negli ambienti del suprematismo bianco (gli stessi che il presidente l’anno scorso ha lodato per la manifestazione a favore del generale confederato Robert E. Lee).
Un analogo slittamento di posizioni del partito, sempre su iniziativa di Trump, è avvenuto sulla questione della Birtright Citizenship, il diritto di essere riconosciuti come cittadini per coloro che nascono sul suolo USA. “Lo abolirò con un ordine esecutivo”, ha spiegato Trump, trascurando il fatto che per abolire il 14esimo Emendamento ci vuole un Atto del Congresso. Anche in questa occasione, una posizione potenzialmente eversiva è stata accolta dall’imbarazzato silenzio di buona parte del GOP. Soltanto lo speaker della Camera, Paul Ryan, ha spiegato che il presidente “ovviamente non può farlo”; e infatti Paul Ryan non si ripresenta alle elezioni di midterm. Sulla spinta di Donald Trump, anche il tradizionale rigore fiscale dei repubblicani sembra vacillare. Con l’approssimarsi del voto, Trump ha promesso “un taglio enorme del 10 per cento alle tasse della classe media prima del giorno delle elezioni”. Quando i giornalisti gli hanno fatto notare che il Congresso non verrà riconvocato sin dopo il midterm, il presidente ha spiegato che “stiamo facendo altre cose, che non devo spiegare ora”. Anche qui, nessun repubblicano ha pensato di obiettare.
Non è insomma soltanto la retorica e il linguaggio politico, è l’intero armamentario ideologico e programmatico del partito repubblicano a vacillare sotto i colpi di Trump. Se si aggiunge che buona parte dei deputati repubblicani che verranno probabilmente riconfermati martedì prossimo vengono da distretti elettorali dove Trump ha fatto il pieno nel 2016, abbiamo il quadro di un partito che ha assorbito buona parte del populismo nazionalista del suo presidente. Il potere di influenza di questa presidenza, va comunque detto, non riguarda soltanto i repubblicani. Sono anche i democratici a essere profondamente cambiati negli ultimi due anni. Le politiche trumpiane – in tema di tagli alle tasse per i più ricchi, di potente deregolamentazione in ambito finanziario e ambientale, di limitazione dell’immigrazione – unita a una retorica spesso incendiaria, hanno contribuito a radicalizzare il partito democratico, portandolo su posizioni più progressiste e “di sinistra” rispetto a soli due anni fa.
Anche qui gli esempi si sprecano. Il tema su cui i democratici stanno insistendo di più in questi ultimi giorni di campagna elettorale è la sanità. Molti non si limitano però a difendere l’Obamacare, ma vanno più in là, dichiarandosi a favore di una sanità pubblica e universale. Lo fa, per esempio, Beto O’Rourke, candidato democratico in uno Stato, il Texas, dove fino a poco tempo fa sarebbe stato impensabile prendere una simile posizione. Minimi salariali, college pubblici e gratuiti sono altre posizioni ampiamente condivise nel campo democratico che si presenta alle elezioni di midterm. Proprio in Florida i democratici, dopo anni di candidati centristi, hanno scelto un politico pienamente di sinistra, Andrew Gillum, che come sindaco di Tallahassee ha elevato i minimi salariali, allentato le leggi sull’immigrazione e alzato le tasse per le imprese in modo da pagare di più gli insegnanti. Sempre in campo democratico, aumentano i candidati afro-americani per posti di rilievo. Stacey Abrams sarebbe la prima nera a diventare governatrice della Georgia (e la prima donna nera a ricoprire questo ruolo in uno Stato americano). Consistente, mai come quest’anno, è anche il gruppo degli sfidanti provenienti dalla comunità LGBTQ.
Non è quindi casuale che i Democratic Socialists of America (DSA) abbiano quest’anno dato il loro appoggio a 42 candidati democratici. Tra questi ci sono democratici con tessera socialista: dalla nuova stella della politica newyorkese, Alezandria Ocasio-Cortez a Rashida Tlaib, un’avvocatessa figlia di operai palestinesi dell’area di Detroit, fino allo sfidante per il seggio di senatore del Maine, Zak Ringelstein. Ma tra i democratici con sostegno socialista ci sono anche candidati che, molto semplicemente, condividono le posizioni dei DSA su tasse, sanità, educazione: per esempio, James Thompson, un veterano di guerra che in Kansas che si batte per diritti e condizioni di vita degli homeless. A confermare lo spostamento a sinistra del partito e di ampi settori della sua classe dirigente c’è del resto un altro dato: buona parte dei possibili candidati alla presidenza per le presidenziali 2020 sono democratici particolarmente progressisti: da Bernie Sanders a Elizabeth Warren, da Cory Booker a Kamala Harris fino a Martin O’Malley. È il fenomeno bollato da Trump come “folla di sinistrorsi”, il cui futuro politico dipende, in gran parte, dall’esito di queste elezioni di midterm.