“La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva. Bisogna ritornare sui passi già fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre”.
Quando attaccai queste parole di José Saramago sull’armadio della mia nuova camera da fuorisede, pensavo a un’ispirazione, di quelle che cullano i ragazzi lontani. Che custodissero pazienti una profezia l’ho capito otto anni dopo, che poi sarebbe ieri, mentre incollavo i lembi dell’ultimo scatolone. Ciao Nord, grazie di tutto, grazie di cuore. Ma cambio vita. Sì, sono uno di quelli che torna al Sud. Ma non uno di quelli che torna a casa. Indietro per andare avanti, per vedere con occhi d’uomo quel che ho visto da bambino.
Tra i perché dei miei bagagli, la convinzione che bisogna cambiare prima di dover cambiare. Credo ci sia un momento – e tanti altri so ne arriveranno ancora – in cui i giorni riscaldano ma non ardono, e bisogna scegliere se sarà il tepore di una vita intera oppure occorrano nuova legna e altre passioni. Succede a qualunque età, ma per alcune è più semplice che per altre. A trent’anni, sento di dover essere io a scegliere il mio dove, non più in balìa di occasioni a cui resterò grato e affezionato. Certo, tornare non è detto che sarà la scelta definitiva, ma è comunque una scelta. La affronto scaldato dalle parole che un amico mi ha scritto pochi giorni fa, a proposito dei dubbi di chi si preoccupa per me: “Il coraggio non sta nel tornare, ma nel compiere una scelta. Il dove, il quando, l’affitto, il biglietto, sono contingenze. Autodeterminarsi. Questo è ciò che è significativo”.
Lo è per me e lo è per tanti altri che ho incontrato mentre ripercorrono (o immaginano di farlo) la strada al contrario. Sono più di quanti si creda anche se non ci sono statistiche: molti vanno e tornano senza cambiare mai la residenza; però le loro storie raccontano l’Italia. E si somigliano: chi emigra ha due cuori, distanti e pulsanti, e sente nel petto un’aritmia che non può durare per sempre. Il bisogno che uno dei due prevalga si fa col tempo fisiologico ma complesso, mentre si intesse fitto con sensazioni diverse. C’è ad esempio, in fondo allo stomaco, un senso di colpa e di rivalsa insieme: che ne sarà di casa se non torna nessuno? Dopo ogni festa comandata, il Sud invecchia di colpo mentre saluta i suoi figli su vagoni di ruggine; dopo ogni diploma, dopo ogni alloro di laurea, impoverisce investendo sulla crescita di chi germoglierà da un’altra parte.
Le faglie tra generazioni che si aprono, rughe su una terra che è madre, sono limiti e al tempo stesso opportunità. La verità è che io torno perché posso, cogliendo alcune di quelle occasioni che capitano a chi le cerca. Il mio non è un salto nel vuoto ma un tuffo da grande altezza, come chi sa che l’acqua è profonda abbastanza. Per qualche istante finirò sommerso, sarà buio. E “nel buio io non so. Ma so che sono tornato a casa”. Parole di Elio Vittorini, uno delle mie parti. Auguri a chi si mette in gioco.