Il futuro, con la previsione di un governo tecnico a breve. E anche il passato, non per fare autocritica ma per raccontare un retroscena dell’immediato post-elezioni: “Mi dissero che dovevo andarmene, non lo avrei fatto manco morto”. Matteo Renzi fa le carte all’esecutivo M5s-Lega e torna sul terremoto interno al Pd dopo il voto del 4 marzo, con una frangia dem che, racconta nel libro di Bruno Vespa, voleva “romanizzare i barbari”. Ovvero stringere un accordo con il Movimento Cinque Stelle.
L’ex premier è convinto che il governo non durerà a lungo: “Sta andando tutto a carte quarantotto. Di qui a qualche mese torneranno i tecnici al governo”. I tecnici, spiega nel libro “Rivoluzione” del presentatore Rai, sono “quelli che io ho combattuto per ristabilire il primato della politica. Mi dispiace e mi preoccupa”. Ma c’è spazio anche per tornare al fallimento delle elezioni e alle settimane successive alle urne, quando il Pd si divise sulla necessità o meno di dialogare con i pentastellati per provare a formare un esecutivo.
“Quando la mattina del 5 marzo mi chiamò Dario Franceschini per dirmi in modo sbrigativo che dovevo andarmene, capii che c’era una parte del Pd che fin dalla notte elettorale immaginava che noi dovessimo metterci d’accordo con i 5 Stelle. C’era un’ala della vecchia sinistra democristiana che si poneva di romanizzare i barbari“, dice Renzi a Vespa e, ricordando i suoi incontri con gli emissari del Movimento, afferma: “Avemmo un dialogo molto civile. Volevano un accordo che partisse da Di Maio premier. Non mettevano veti, anzi si auguravano che portassi la mia esperienza in Italia o all’estero. Manco morto, risposi, io non ci sono, noi non ci siamo“.
Poi, però, ricorda Renzi, “appena vidi che si stava stabilendo una intesa tra Martina e Fico mi accorsi che si era creato un sistema”. La strategia, a suo avviso, “era molto chiara”. Ma mettevano, spiega, “la pallina dell’accordo su un piano inclinato, non rendendosi conto che nella base del Pd nessuno voleva l’accordo e speravano che fosse troppo tardi per dire no”. Stringere un patto, ribadisce, “sarebbe stata una follia e l’ufficializzazione del bipolarismo populista: Lega contro 5 Stelle e noi a fare i portatori d’acqua. Eravamo una diga contro il populismo e questa diga è stata corrosa all’interno prima di essere distrutta da fuori”. Quindi, torna sul “fuoco amico”: “Più che i 5 Stelle ha sconfitto il Pd chi mi ha fatto la guerra, sono stati i miei, sempre. Di Maio e Salvini hanno potuto muoversi in totale libertà e autonomia. Io non ho ricevuto alcun sostegno. È una cosa sconvolgente“.
Nell’intervista di Vespa, l’ex segretario del Pd torna anche sul caso Consip: “La falsificazione di atti giudiziari per colpire il presidente del Consiglio e i suoi familiari fa parte di una storia ancora tutta da scrivere. Ma nessuno batte ciglio“. Poi ammette: “Intendiamoci: anche senza la Consip avrei perso il referendum e le elezioni. Ma questa pagina ha ancora molti aspetti poco chiari e chiunque abbia responsabilità in Italia non può restare indifferente rispetto a una vicenda che riguarda una delle istituzioni più importanti del Paese. È una cosa enorme, e invece chi deve saperlo fa finta di non saperlo”. Dopo la notizia della richiesta di archiviazione per il padre Tiziano Renzi, “ho ricevuto migliaia di messaggi di cittadini comuni, ma nessuno da personaggi delle istituzioni. Incredibile“. E “silenzio di tomba”, conclude, “anche da chi aveva grandi responsabilità istituzionali quando questa vicenda esplose. Molti zitti anche nel Pd, insomma”.