Uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale che ha portato alla presidenza Donald Trump diventa realtà. Oggi Washington ritorna ad imporre unilateralmente dure sanzioni sul settore energetico e sul sistema finanziario iraniano, silurando l’accordo Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), e rinnegando nei fatti il percorso di dialogo intrapreso dalla precedente amministrazione Obama. Il tutto a ridosso delle elezioni di midterm e creando difficoltà generalizzate fra gli alleati degli Stati Uniti.
L’amministrazione Trump ha promesso, nelle parole del Segretario di Stato Mike Pompeo, che 8 paesi saranno temporaneamente esentati dal rispettare le sanzioni perché particolarmente esposti e che hanno allo stesso tempo dimostrato di aver agito in accordo con Washington. Anche l’Italia, il quinto mercato per il petrolio iraniano, rientra nella lista insieme a Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Grecia, Turchia, Taiwan.
Durissima la reazione di Teheran. “Siamo in una situazione di guerra economica – ha affermato il presidente iraniano Hassan Rohani – Non penso che nella storia americana ci sia mai stato qualcuno alla Casa Bianca che abbia violato a tal punto il diritto e le convenzioni internazionali”. “Aggireremo queste sanzioni illegali e ingiuste con fierezza”, ha aggiunto, perché l’Iran “può vendere e venderà il suo petrolio“.
L’8 maggio scorso l’annuncio ufficiale che Washington non era più pronta a rispettare il patto siglato con l’Iran nel luglio 2015. Il JCPOA ha visto i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Usa, Regno Unito, Francia, Russia e Cina), più Germania, giungere finalmente ad un’intesa con Tehran per sottoporre il programma nucleare della Repubblica Islamica ad un ferreo regime internazionale di controllo.
In cambio l’Iran ha così riottenuto i propri crediti congelati nelle banche internazionali e soprattutto è stata nuovamente in grado di rientrare nel mercato petrolifero a pieno titolo, commerciando con i mercati europei e orientali, quelli maggiormente interessati al greggio proveniente dal Golfo Persico. Prima dell’introduzione delle sanzioni, nel 2012, circa il 64% del valore dell’export del paese proveniva proprio dal petrolio, per un volume parti a circa l’8% di tutto l’export mondiale di greggio. Nel solo 2017 l’Iran ha guadagnato dalle esportazioni di prodotti petroliferi un ammontare pari a 55 miliardi di dollari, pari a circa il 12% del Pil del paese.
“Sanctions are coming”
Già durante la campagna per le primarie del partito repubblicano Donald Trump aveva criticato il JCPOA perché troppo morbido, definendolo il risultato di una debole impostazione della politica estera degli Stati Uniti. “Gli iraniani ridono di noi”, commentava sardonico l’allora businessman, intervistato dalla Cnn nel patio di una sua azienda vinicola. Prima di firmare una qualsiasi intesa con i “persiani” occorreva utilizzare la mano pesante e rafforzare le sanzioni.
Due settimane dopo l’annuncio del ritiro degli Stati Uniti dal JCPOA, Pompeo ha presentato una “Nuova Strategia per l’Iran” e che dovrebbe portare nel futuro a chiudere un nuovo accordo migliorativo. Questa Strategia si basa su tre punti principali: 1) L’applicazione di sanzioni finanziarie “senza precedenti” per colpire l’economia del paese e così ostacolare la presenza di Tehran in vari scenari, dal Medio Oriente all’Afghanistan. 2) Un maggiore coinvolgimento dei paesi alleati nella regione, assicurando il diritto alla libera navigazione nel Golfo Persico, tracciare e schiacciare qualsiasi attività di agenti iraniani o proxy come Hezbollah e allo stesso tempo impedire una qualsiasi ripresa del programma nucleare. 3) Un invito al governo affinché concentri i propri sforzi nel migliorare le condizioni di vita dei cittadini “frustrati” dalle attività del governo iraniano, concentrato a sostenere politicamente e militarmente gli alleati all’estero.
Nel documento inoltre vi è una lista di 12 richieste specifiche dirette a Tehran. Ad esempio viene intimato il rilascio di tutti i cittadini occidentali detenuti nel paese, il ritiro del supporto ad Hamas e milizie palestinesi, il termine del coinvolgimento dell’Iran nei teatri di guerra della Siria e dello Yemen. Una volta rispettate queste condizioni il paese sarebbe nuovamente reintegrato nel sistema economico internazionale. Clausole che però equivarrebbero per il paese ad una scelta di irrilevanza geopolitica regionale e che avrebbero come prima conseguenza la piena libertà di iniziativa allo storico rivale, l’Arabia Saudita.
L’impatto sul settore energetico mondiale
L’ostilità verso la decisione degli Stati Uniti, espressa con toni veementi dalle maggiori autorità iraniane, si è allargata non soltanto, e come prevedibile, a Russia e Cina ma ha sollevato le proteste degli alleati europei e rischia di mettere in difficoltà diversi paesi come India, Corea del Sud e Turchia. Questi sono fra i primi importatori di petrolio dall’Iran, rispettivamente il secondo, terzo e quarto paese, e sono partner chiave della politica estera americana. Il loro deficit di risorse li rende strutturalmente dipendenti da importazioni estere di greggio ed esposti gravemente ad un possibile contraccolpo delle sanzioni. Il rischio per chiunque le infranga è quello di perdere l’accesso ai crediti del sistema finanziario americano e l’abilità di fare affari con enti e compagnie degli Stati Uniti. La minaccia è seria in quanto l’interdipendenza delle compagnie energetiche a livello globale e la loro necessità di finanziarsi sui mercati più importanti lega a doppia mandata le maggiori compagnie mondiali ai servizi delle banche e fondi americani.
In un’intervista rilasciata il primo novembre scorso Sanjiv Singh, il presidente della India Oil Corporation (IOC) la principale compagnia di stato indiana addetta alla raffinazione, trasporto e distribuzione di prodotti petroliferi del paese, ha confermato che sebbene abbia già calato gli ordini, sarà però impossibile azzerare le importazioni provenienti dal Golfo. IOC infatti al momento raffina un quantitativo di circa 80 milioni di tonnellate all’anno, l’86% importato dall’estero. Di questo, nel mese di ottobre, circa il 30% proveniva proprio dall’Iran. Riyad d’altro canto ha già promesso l’invio di cargo aggiuntivi per il rifornimento di petrolio alle compagnie indiane per un ammontare di 4 milioni di tonnellate extra nel solo mese di novembre.
Nel frattempo Unione Europea, Francia, Germania e Regno Unito hanno rilasciato un comunicato congiunto il 2 novembre in cui lamentano la reintroduzione di nuove sanzioni. L’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri Federica Mogherini ha rassicurato che l’Europa proteggerà quegli attori economici che fanno legittimamente affari con Tehran, in linea con la legislazione europea e con la risoluzione 2231 delle Nazioni Unite.
In maggio la compagnia francese Total aveva dichiarato che, nel caso non avesse ottenuto esenzioni da parte degli Stati Uniti, avrebbe lasciato il progetto multi miliardario South Pars, il più grande giacimento di gas naturale al mondo, condiviso fra Iran e Qatar.
L’Italiana Eni non pare essere direttamente esposta alle sanzioni. Nonostante ciò, secondo un accordo siglato nel 2017 e che anticipava il ritorno della compagnia in Iran, la stessa dovrebbe recuperare anche 280 milioni di euro investiti nel paese. La loro reintroduzione rimette in discussione la partecipazione di Eni nel settore energetico del quarto paese al mondo per riserve di petrolio e secondo per quanto riguarda il gas naturale.
Sebbene siano state presentate come “le più forti della storia” uno studio di Bloomberg dimostra invece come nei 6 mesi precedenti alla loro applicazione, le sanzioni organizzate nel 2012 dall’amministrazione Obama avevano indotto globalmente a ridurre del 20% in più le riduzioni di importazioni di greggio dall’Iran. Segno che i paesi ed i mercati, a causa delle varie crisi dei tradizionali produttori di greggio come Venezuela, Libia e Angola, sono meno predisposti a sottostare alle richieste del presidente americano.
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