Il primo novembre del 1978 moriva Giuseppe Berto. Autore spigoloso e controverso che conobbe da vicino il male oscuro, un’angoscia profonda legata a un irrisolto col padre, da non confondere con la melanconia. Dopo aver incontrato diversi insuccessi umani e professionali cadde in uno stato di crisi esistenziale che lo precipitò nel buio. Superò questo momento anche grazie alla scrittura del libro omonimo, la stesura del quale venne incoraggiata e indicata dal suo analista, Perrotti, che lo reintrodusse alla scrittura fornendogli una scialuppa con la quale attraversare la vita.
Uno dei compiti fondamentali di un analista consiste proprio nel reperire, uno per uno, quei punti di tenuta specifici del paziente, rimettendoli in funzione laddove assolvano a uno scopo terapeutico. Non è il solo artista ad aver neutralizzato il blues dell’anima grazie a una dote artistica. Bruce Springsteen parlò pubblicamente della sua depressione. Diceva: “Ovunque e chiunque tu sia, la malattia non ti lascia mai mi sono sempre immaginato la depressione come un’automobile in cui i passeggeri sono tutti i lati della tua personalità”. Il senso delle sue parole trova una conferma nella sua carriera. Il sole nero ha trovato lenimento per lui salendo sul palco da 30 anni a questa parte. Un antidoto efficace a esorcizzare gli occhi di un padre reduce di guerra, i cui occhi erano “finestre su un mondo così mortalmente reale”. La musica, la scrittura, la letteratura, la pittura. Sono gli stessi strumenti di sostegno che la gente non dotata come questi artisti che va in analisi cerca di tenere oliati e funzionanti.
Lacan definiva queste putrelle dell’anima il sinthomo, un elemento di tenuta, un cerotto da adattare alla vita perché se ne faccia un uso. La corsa per il podista, vendere auto, scrivere articoli, cucinare: passioni irriducibili, sovente dimenticate e derubricate, che mostrano nella clinica una capacità di tenere in equilibrio soggetti profondamente oscillanti tra buio e quotidianità. Mettendoli al lavoro, coadiuvandoli con il supporto di un buon trattamento farmacologico, è possibile fornire al paziente un egregio stabilizzatore che gli permetta di continuare il cammino al riparo da oscillazioni letali.
La psicoanalisi apre, o dovrebbe aprire, quelle cantine serrate da anni, rispolverando attrezzi che si credevano dimenticati. Più difficile è il trattamento della melanconia, diversa dalla depressione nevrotica, struttura dell’animo capace di travolgere in pochi attimi barriere messe sapientemente a guardia del buio. Il melanconico patisce un antico fuori scena. Si tratta di una condizione di esclusione ab inizio, un fuori squadra come dato costitutivo. Nella triangolazione edipica, il melanconico non è stato introdotto, non ha trovato forti mani che ne hanno circoscritto e protetto il posto.
Egli occupa così una posizione permanente di oggetto suscettibile di caduta, portatore di una provvisorietà radicale. Questa è la condizione che tanti melanconici cercano di neutralizzare nel corso della vita. Si tratta dunque di una ricerca di posto, di stabilizzazione dell’essere che mira a scongiurare la ricaduta nella originaria posizione di cosa. Nel momento in cui il legame si sfilaccia e il posto diventa incerto, egli è irrimediabilmente risucchiato verso una posizione primigenia. David Foster Wallace, scrittore geniale e di successo, conobbe la forza dirompente di questo male dell’anima, che sbriciolò in poco tempo l’arte delle parole in lui fiorente, coltivata nel tempo, barriera che gli permise di vivere al riparo dal precipizio sino a che ‘la Cosa Brutta’, come lui la chiamava, lo travolse e lo portò a togliersi la vita.
Per intuire la forza devastante della depressione maggiore, capace nel suo caso distruggere un tenace binomio tra sinthomo creativo e terapia farmacologica, si ricordi ciò che diceva: “La persona che ha una così detta ‘depressione psicotica’ e cerca di uccidersi non lo fa ‘per sfiducia’ o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme, per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta”.