di Lelio Demichelis*
L’alienazione, questa sconosciuta. Non se ne parla più, come se fosse magicamente scomparsa dalla scena. Come se le retoriche neoliberali dell’essere imprenditori di se stessi e di vivere la propria vita come un’impresa in competizione con gli altri – unitamente alle retoriche del condividere, del fare community, dei social, dello smart-working e dello smart-job, dello smart-phone e delle smart-cities e, prima ancora, dell’economia della conoscenza e del capitalismo intellettuale (sic!) – avessero davvero cancellato quella “cosa”, l’alienazione appunto che per un secolo e mezzo aveva invece caratterizzato pesantemente e drammaticamente le forme e le norme capitalistiche di produzione e di organizzazione del lavoro. L’alienazione, la sua riconoscibilità e il suo contrasto erano – una volta – i fattori-base per la costruzione di quella coscienza di classe senza la quale, diceva Karl Marx, era difficile immaginare una soluzione alternativa al capitalismo – o anche solo a democratizzarlo, come avvenuto nel post-1945.
“Oggi – scriveva Luciano Gallino nel 2012 – si deve purtroppo constatare che il tema dell’alienazione – fondamentale per cercare di rendere le persone capaci di controllare il lavoro che svolgono, piuttosto che esserne schiave – è scomparso totalmente dal programma di riflessione e dal campo di analisi della sociologia mainstream” (sempre più schiacciatasi – aggiungiamo – sulla ricerca quantitativa, divenendo incapace di guardare i processi nell’insieme). “Inoltre, diventate frammentarie e socialmente invisibili le classi sociali e scomparsi anche i partiti di riferimento – continuava Gallino – è sparito anche l’interesse per la qualità del lavoro. Ma anche questa perdita di interesse si spiega con le retoriche e le pedagogie per cui proprio la rete permetterebbe invece una migliore qualità del lavoro (è uno storytelling fascinoso ma che nasconde la realtà della nuova subordinazione di tutti alle piattaforme e alla rete come nuova fabbrica-organizzazione scientifica del lavoro), quindi di controllare il proprio lavoro, di gestirlo autonomamente e liberamente (lavori quanto vuoi, quando vuoi)”.
In realtà, l’alienazione non è scomparsa con le nuove forme di organizzazione del lavoro e del consumo (in verità vecchie perché sempre basate sulla legge ferrea del tecno-capitalismo, sempre uguale dalla fabbrica di spilli alle piattaforme, ovvero: suddividere/isolare/individualizzare per poi totalizzare/integrare/connettere). Semmai è molto ben mascherata dallo stesso sistema che la produce. Per questo abbiamo provato a togliere la maschera o il velo o le ombre della caverna platonica che nascondono l’alienazione, analizzando non solo le singole forme di alienazione, ma la grande alienazione che le diverse forme di alienazione vanno poi a comporre (in L. Demichelis, La grande alienazione, Jaca Book, 2018).
Perché, riprendendo appunto Gallino, l’alienazione è presente più che mai nelle forme nuove/vecchie di lavoro (Amazon, gig e sharing economy, lavoro uberizzato, estrazione di valore dai dati che lasciamo in rete/social, la fabbrica 4.0, l’ibridazione uomo-macchina, eccetera), ma lo è anche o soprattutto nei crescenti processi di delega alla tecnologia (app-algoritmi-algoritmi predittivi-dopamina per modificare i comportamenti collettivi, eccetera). Perché, dopo aver automatizzato il lavoro fisico, oggi la tecnica ci sta portando all’automatizzazione del pensiero (senza che ce ne rendiamo conto, anzi facendoci felici di poter avere le risposte senza più porci le domande), con tecnologie che si sostituiscono ai processi intellettivi umani, alienando quindi gli uomini dalla propria libertà, dalla riflessione, dall’analisi/comprensione e soprattutto dalla decisione: decisione che un tempo si componeva a sua volta di possibilità (degli uomini di pensare) e di capacità (pensando, si può poi decidere), oggi demandate/delegate appunto alla tecnica.
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*Università degli Studi dell’Insubria