La foto ha fatto il giro del mondo (del web) e ha impressionato per l’evocazione del quadro di Delacroix, “La libertà che guida il popolo”: Abu Amro, 20 anni, palestinese, in marcia nella Striscia di Gaza (proteste iniziate il 30 marzo, ogni venerdì, per chiedere il diritto di tornare sulla propria legittima terra, per chiedere il diritto ad esistere). L’immagine è tanto forte quanto potente l’eco nell’arte. L’associazione è tanto inutile quanto violenta la repressione dell’esercito israeliano nei confronti dei palestinesi.

Stavolta l’arte non esalta, ma distrae, perché il fatto non è la somiglianza con il celebre dipinto, ma la ferocia con cui un popolo è oppresso. Si parla del dipinto, non si parla del massacro: “Nel 2020 Gaza sarà inabitabile” sentenzia l’Onu. I palestinesi già uccisi dai cecchini israeliani sono morti prima, accidenti.

Troppo forte il simbolo a cui la foto l’ha condannato, perché ora non c’è Delacroix o Michelangelo a cui associarlo: non c’è un quadro per esaltare Abu due giorni dopo, quando il tiro a segno dell’esercito israeliano ha fatto (quasi) centro: Abu Amro è stato ferito, non ucciso, ma la comunità internazionale può star serena: da morto, disteso, con la bandiera della Palestina, si troverà uno scorcio del Mantegna per ammirare come muore un palestinese. Ma l’arte ci salverà e su “La zattera” di Géricault c’è posto per tutti, eccetto le Palestine del mondo, anche quelle sul pianerottolo di casa, nell’indifferenza – o come diceva Vittorio Arrigoni “Palestina è anche fuori dall’uscio di casa”.

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