Per alcuni sarà un processo politico, per altri la risposta inevitabile di uno Stato di diritto. Da quando il Tribunal Supremo di Madrid ha chiuso le indagini condotte dal magistrato Pablo Llarena, con il conseguente rinvio a giudizio per i protagonisti del referendum per la Repubblica catalana del 1 ottobre dello scorso anno, in Spagna sono esplose nuove polemiche. Con riflessi sulla tenuta dell’esecutivo, il premier socialista Pedro Sánchez è chiamato in questi giorni a resistere al chantaje, il ricatto, dei principali partiti indipendentisti, la sinistra di Esquerra Republicana (Erc) e i centristi di PdeCat (il Partito democratico europeo catalano) dell’ex presidente Puigdemont. Da settimane i separatisti, in cambio del possibile appoggio a una risicata maggioranza di sinistra (socialisti e Podemos) sulla manovra finanziaria in discussione, chiedevano un deciso intervento del governo sui pubblici ministeri perché venissero mitigate le richieste di condanna nei confronti dei leader della causa catalana.
Se l’esecutivo avesse ceduto alle pressioni sarebbe andato in frantumi lo Stato di diritto. La Pubblica Accusa ha quindi proseguito fino in fondo il proprio lavoro e 18 dirigenti catalani dovranno ora affrontare il processo, un giudizio con capi d’accusa così pesanti da far tremare i polsi: delitto di ribellione per imputati eccellenti quali Oriol Junqueras, leader di Erc ed ex vice presidente della Generalitat, e Carme Forcadell, già presidente del Parlamento catalano.
Secondo la tesi dell’accusa il primo avrebbe incitato la popolazione a tenere manifestazioni pubbliche, pur avendo egli partecipato a riunioni con i vertici dei Mossos, la polizia regionale, dalle quali emergeva la possibilità di scontri di piazza, nella convinzione che col sostegno della polizia locale si sarebbe forzato l’accerchiamento del governo centrale. La seconda è accusata di aver portato all’ordine del giorno dell’assemblea legislativa la votazione per una legge di transizione verso la repubblica, mettendo di fatto il Parlamento al servizio del risultato di una consultazione dichiarata illegittima dal Tribunale costituzionale.
Non è di poco rilievo il rischio cui vanno incontro gli esponenti separatisti, la procura dell’Alta Corte madrilena ha formalizzato la richiesta di 25 anni – il massimo della pena prevista dall’articolo 473 del codice penale – per Oriol Junqueras, 16 anni per altri ex membri del congresso regionale, e ben 17 anni per Carme Forcadell e i responsabili delle associazioni civiche (Assemblea Nacional Catalana e Ómnium Cultural) che maggiormente hanno supportato nelle piazze il procés verso il contestato referendum. Con due fatti ulteriori messi in rilievo nelle carte dei pubblici ministeri: gli artifici di bilancio operati dal governo regionale il quale imputava i tre milioni di spese per la consultazione referendaria a generiche partite contabili per logistica e pubblicità – di qui l’accusa di malversazione di fondi pubblici – e la presunta complicità con lo stato maggiore separatista dei vertici dei Mossos d’Esquadra, con l’ex capo Josep Lluís Trapero considerato parte del programma politico.
Il percorso processuale appare disseminato di ostacoli, con le polemiche interne per le lunghe misure restrittive adottate in via cautelare nei confronti dei politici catalani già trasferite in consessi internazionali quali il Comitato dei diritti umani dell’Onu e la Corte di Strasburgo. Con la singolarità che nelle schermaglie che caratterizzeranno il dibattimento le parti non potranno invocare precedenti dei tribunali iberici. L’unico provvedimento per reato di ribellione conosciuto nella storia della democrazia spagnola è quello che interessò il tenente-colonnello Antonio Tejero, protagonista del golpe del 23 febbraio del 1981 quando con in testa il “tricornio”, il curioso copricapo della Guardia civil, e stretta in pugno una pistola fece irruzione nel Congresso dei deputati di Madrid. ¡Quieto todo el mundo! gridò, facendo così traballare la giovane democrazia iberica. Ora divenuta più matura, ma chiamata, forse, a sostenere prove più dure.