Donald Trump mostra soddisfazione per il risultato elettorale di medio termine. “Un grande successo”, lo definisce, sottolineando che dove ha fatto campagna – in Florida, Indiana, Missouri – i candidati repubblicani hanno vinto. In realtà, il voto di martedì rappresenta una prima, importante battuta d’arresto alla sua avventura politica. Il messaggio su cui Trump ha sinora modellato la sua presidenza continua a risuonare presso una parte importante del Paese. Ma una maggioranza di americani ritiene che il potere della Casa Bianca debba essere limitato, soggetto a verifiche e controlli che sinora non ci sono stati. Soprattutto il mito dell’invincibilità, su cui Trump ha costruito gran parte della sua narrazione, esce infranto dal risultato delle urne del 6 novembre 2018.
Dal momento in cui la nuova mappa del Congresso ha cominciato a delinearsi – era ormai notte inoltrata a Washington – il messaggio che Trump e i suoi hanno cominciato a dare era chiaro. “Abbiamo vinto”. “Non c’è stata l’onda democratica, tutt’al più una increspatura”. “La vera onda è quella repubblicana al Senato”. In effetti, i repubblicani escono tutt’altro che a pezzi da queste elezioni. Strappano alcuni senatori ai democratici ed è vero, peraltro, che dove Trump ha fatto campagna i risultati si sono visti. I repubblicani vincono anche alcune sfide per governatore in Stati fondamentali per le prossime elezioni presidenziali: Florida, Ohio, Iowa e New Hampshire. La cosa pare sufficiente per rassicurare presidente e vertici del GOP a Washington. Una vittoria del partito all’opposizione, nelle elezioni di medio termine, è del resto naturale, quasi fisiologica. Bill Clinton e Barack Obama collezionarono sconfitte ancora più brucianti, nelle elezioni di medio termine, ma ciò non gli impedì poi di riconquistare la Casa Bianca.
Questa è l’interpretazione più rassicurante, per Trump e i repubblicani: quella che permette di tornare a Washington come se non fosse successo gran che e di pensare al 2020. E’ un’interpretazione, del resto, che mostra una certa adesione alla realtà. Il messaggio politico di Trump resta popolare e maggioritario nelle aree rurali e in larghi settori del Midwest e del Sud. Anzi, l’America rossa diventa sempre più trumpiana – come dimostra l’elezione di governatori completamente conquistati dalla retorica anti-stranieri di Trump: Ron DeSantis in Florida, Brian Kemp in Georgia, Mike DeWine in Ohio. C’è poi un ulteriore dato che rassicura Trump. I democratici possono sì aver conquistato la Camera, ma niente di quanto hanno promesso, dalla sanità pubblica e universale al college gratuito, potrà essere approvato dal Congresso. Dunque, nel 2020, molti tra i candidati più liberal e progressisti torneranno dai loro entusiasti elettori e non avranno nulla da mostrare.
Questa è la linea di difesa, quella più ottimistica, che Trump cerca in queste ore di accreditare – anche di fronte ad eventuali critiche provenienti dal suo partito. Si tratta di una difesa che ha alcuni elementi di verità, ma che trascura altri dati essenziali. Il primo: “l’onda democratica” – che non ci sarebbe stata – è in realtà una creazione della stessa propaganda repubblicana – non a caso, tra i primi ad accreditarla è stata una delle più fedeli collaboratrici di Trump, Kellyanne Conway. Per la gran parte dei sondaggi e degli osservatori, prima del voto, l’esito più probabile era quello che poi si è puntualmente realizzato: la Camera ai democratici, il Senato ai repubblicani. Era del resto la stessa mappa elettorale – con buona parte delle sfide al Senato concentrate nelle aree più rosse – a rendere molto probabile una conferma dei repubblicani. Nonostante questo, i repubblicani non sono riusciti a conquistare il seggio di Joe Manchin in West Virginia – uno Stato che nel 2016 ha dato a Trump una maggioranza di oltre 40 punti. Perdono un seggio in un altro bastione conservatore, il Nevada. E nel rosso Texas i democratici arrivano con Beto O’Rourke vicini, vicinissimi alla vittoria.
C’è poi un dato più generale. Se Trump rafforza la presa sull’America rurale, mostra segni di aperta sofferenza nell’America dei distretti urbani e suburbani. E’ questa America, anzi, che gli ha mandato un messaggio molto chiaro: la fine del suo potere senza limiti, l’inizio di una fase politica segnata da un maggiore equilibrio. La perdita di voti – e di influenza politica – dei repubblicani di Trump nei sobborghi dove vive una borghesia moderata e dal profilo politico indipendente è anzi uno dei dati più evidenti della nuova mappa politica: dal Texas alla Florida, dall’Illinois alla Virginia. I repubblicani perdono consensi anche nelle sfide che sembravano più che certe. In Texas il democratico Colin Allred, ex giocatore della N.F.L., batte il deputato in carica, Pete Sessions. In Illinois un’altra democratica, Lauren Underwood, sconfigge Randy Hultgren, che nel 2016 aveva vinto con un vantaggio di 19 punti. In Virginia un’altra democratica, Abigail Spanberger, strappa il seggio di deputato a un eroe del Tea Party, Dave Brat, che solo quattro anni fa sembrava destinato a una radiosa carriera politica nazionale.
E’ insomma piuttosto chiaro che non è solo l’onda di donne, giovani, afro-americani e latini ad avere dato ai democratici la vittoria alla Camera ed avere espresso un gigantesco no a Donald Trump. Trump mostra di avere un serio problema con un segmento importante di elettorato, che nel 2016 aveva guardato con interesse, se non con simpatia, alla sua ascesa politica. Questo è uno degli esiti più visibili delle elezioni di medio termine, uno dei problemi che Trump e i repubblicani dovranno affrontare in vista delle presidenziali 2020. La radicalizzazione del messaggio politico, che il presidente ha cercato con ostinazione in questi anni – dai migranti a giudici sempre più conservatori per Corte Suprema e tribunali federali – può funzionare nell’America rurale ma non piace a vasti settori della borghesia urbana e del voto indipendente. Senza questi settori, non sarà facile nel 2020 ripetere l’exploit del 2016.
Più nell’immediato, comunque, il vero problema per la Casa Bianca riguarda azione politica e inchieste. E’ praticamente certo che l’attività legislativa dell’amministrazione sarà in larga parte bloccata. Trump ha parlato della necessità di lavorare insieme, democratici e repubblicani, su quello che c’è di comune – per esempio, lo sviluppo delle infrastrutture. Poco probabile che l’appello venga accolto. Washington ha conosciuto in questi anni un processo di polarizzazione che difficilmente verrà superato dal presidente che ha più contribuito a creare le divisioni. Ancora più probabile e importante è però l’avvio, da parte della Camera democratica, di una serie di indagini su Trump. Attraverso lo strumento del subpoena, del mandato di comparizione, verranno aperti una serie di nuovi fronti: dalle indagini sulle presidenziali 2016 alle inchieste sui sospetti di riciclaggio di denaro delle imprese del presidente, fino alle accuse di evasione fiscale. E’ un’opzione davvero “nucleare” che allarma Trump e il suo entourage e che rischia di trasformare i prossimi due anni in una campagna elettorale continua e nel periodo più turbolento della recente storia politica americana.