Ore 22.45. Sono al computer e ricevo un email dal collegio di mio figlio: c’è stata una sparatoria al bar Borderline in Thousand Oaks, 16 studenti sono tra i feriti e ricoverati all’ospedale locale. Non dicono i nomi. Dal Pubblic Relation Office del campus le notizie sono poche e poco rassicuranti.
Mettono comunque subito a disposizione delle famiglie degli studenti che provengono da ogni dove un “Counseling Center per confidential emotional/psychological support to all Pepperdine students and family around the world”. Cercano alla meglio di gestire l’emergenza: l’Emergency Information Page è aggiornata di continuo.
Subito dopo arriva un’altra mail di cordoglio: il primo nome della vittima reso noto è quello di Alaina Housley. Un altro studente risulta ancora disperso. L’email chiede a noi genitori di unirci nelle preghiere, è a nostra disposizione anche un “pastoral support” (un sostegno di fede) attraverso il cappellano della scuola. Sento il cuore scoppiarmi nel petto, chiamo subito mio figlio sul cellulare, nessuna risposta, il telefono è staccato. Provo e riprovo. Cerco affannosamente notizie on line: un ex veterano dei marines armato, vestito di nero, mercoledì sera, serata dedicata agli studenti, era entra al bar e incomincia a sparare all’impazzata. Un gruppo di musica country suona dal vivo e la musica assordante all’inizio nasconde il rumore degli spari. Un po’ la stessa dinamica usata dai terroristi Isis al Bataclan a Parigi, coglierli tutti di sorpresa.
In una manciata di secondi, il carnefice ammazza dodici ragazzi. La scena è quella ormai tristemente nota e apocalittica: chi si butta sotto i tavoli, chi si lancia dalle finestre, chi si nasconde in bagno. Ian David Long, 28 anni, riserva l’ultimo proiettile per se stesso e si punta la pistola alla tempia. Scorro velocemente le notizie su Cnn, l’ex marine era in cura da tempo per PTSD (Post traumatic stress disorder) ma munito di pistola, legalmente registrata. Chi l’aveva in cura non poteva requisirgli l’arma, no?
Continuo a chiamare mio figlio sul cellulare, senza risposta. Il panico cresce, scrivo al Counseling Center: voglio disperatamente notizie. Sono preparata al peggio. Anzi no, al peggio non ci si prepara mai.
La risposta arriva dopo pochi minuti da Nivla Fitzpatrick, psicologo incaricato di dare supporto agli studenti e alle famiglie: “As far as we know, he was not among the students in Thousand Oaks last night”. Poche parole che per me hanno il potere di una benedizione. Mio figlio non risulta essere tra le vittime. Mi promette di rintracciarlo e farmi telefonare. Mezz’ora dopo arriva la telefonata di Kamalei, doveva andare al concerto, all’ultimo ha cambiato idea. E’ scosso, impaurito di un destino che non puoi controllare: perché proprio lei. E io no. Alaina la conosceva bene, è una sua compagna della classe di Matematica. Era entrata a Pepperdine con una borsa di studio, suonava il violino, era una ragazza piena di talento e di sogni, come è giusto averne a quella età. Vado sul suo profilo Instagram, selfie, contentezza, amici, il 28 luglio scorso ha compiuto 18 anni, palloncini colorati e regali, l’ultima foto l’ha postata qualche giorno, t-shirt rossa e bomber nero di pelle. Non riesco a staccare i miei occhi dai suoi, un viso pulito, un sorriso accogliente.
Una domanda rimane sospesa tra lacrime e cuoricini spezzati: Why? Lord, help us all. Signore, aiutaci tutti.
Figlio mio, ti ho dato le ali per volare. Anzi, te le sei prese da solo. Ma questa America dove anche io ho studiato, ho lavorato, mi piace sempre meno. Adesso con Trump non ne parliamo proprio…