Con una politica astuta e accorta, l’aspirante sultano Recep Tayyip Erdoğan si è abilmente riposizionato sulla scena internazionale, intrecciando intese e accordi con Russia e Cina e utilizzando la barbara uccisione del giornalista Khashoggi da parte degli sgherri di Mohammed Bin Salman nella sede del consolato saudita di Istanbul per contendere alla monarchia assoluta di Riad il ruolo di portavoce dell’Islam sunnita. Si è trattato di scelte in gran parte obbligate data anche la pesante crisi economica che si è abbattuta sulla Turchia, ma anche le palesi difficoltà incontrate dai suoi disegni espansionistici in Siria.
Nonostante tale ricollocazione, che ha comportato fra le altre cose anche una certa presa di distanza dagli Usa e da Trump, la posizione di Erdogan sembra tuttavia ancora strategicamente piuttosto fragile. Ciò in primo luogo per il fatto che il Paese resta spaccato grosso modo a metà, come confermato anche dagli ultimi appuntamenti elettorali e referendari, nei quali l’aspirante sultano si è imposto di misura e, secondo vari osservatori internazionali, esclusivamente a seguito di brogli e illeciti condizionamenti del voto.
Come denunciato da più parti, la situazione dei prigionieri politici nel Paese è gravissima. Quel poco che rimaneva in Turchia di Stato di diritto è stato smantellato. Come denunciato dalla coalizione di avvocati e di giuristi che si accinge a dedicare agli avvocati turchi la “giornata dell’avvocato perseguitato“, che si celebrerà il 24 gennaio 2019, sono attualmente circa 600 gli avvocati imprigionati in Turchia per motivi attinenti all’esercizio della loro professione. Così come sono molti i giudici, gli accademici, artisti e intellettuali in genere che vengono licenziati, perseguitati e arrestati per il loro impegno democratico.
Ma il prigioniero politico per eccellenza della Turchia resta Abdullah Ocalan, il grande leader e intellettuale curdo che oramai da quasi 20 anni – venne rapito da forze speciali turche a Nairobi nel febbraio 1999 – si trova detenuto nell’isola di Imrali. Ocalan simboleggia il popolo curdo e la sua lotta per l’autodeterminazione. Ma il pensiero di Ocalan è molto importante e andrebbe studiato per la sua capacità di superare ogni gretto nazionalismo, situando la lotta di liberazione del popolo curdo in un contesto più ampio, formato dalle aspirazioni democratiche di tutti i popoli del Medio Oriente e da problematiche di carattere universale come la liberazione della donna e la salvaguardia dell’ambiente.
Fra le indiscutibili novità del pensiero di Ocalan occorre sottolineare il rifiuto della creazione di uno Stato indipendente come unico sbocco possibile del processo di autodeterminazione, che dovrebbe invece dar vita a un federalismo di tipo nuovo nell’ambito delle frontiere esistenti. Si tratta quindi di un pensiero profondamente e autenticamente rivoluzionario. Non è quindi casuale che Ocalan sia il nemico pubblico numero uno del regime turco e di molti altri soggetti reazionari.
La resistenza del popolo curdo in Siria ha sbarrato la strada all’Isis, che con il regime di Erdogan aveva stretto alleanze, ottenendone armi e aiuti di vario genere in cambio di petrolio. Per aver denunciato queste realtà, i giornalisti di Cumuryet e di altre testate sono stati condannati a pesantissime pene detentive. Le grandi potenze presenti sul territorio siriano hanno favorito il regime turco per motivi di bassa convenienza politica ed economica, dando le spalle ai curdi e consentendo aggressioni e massacri ai loro danni. Ma la lotta dei curdi continua.
La liberazione di Ocalan consentirebbe l’avvio di una nuova fase della vita del Medio Oriente, caratterizzata dalla convivenza pacifica tra le sue multiformi popolazioni e da nuove fasi di sviluppo democratico. C’è da temere fortemente che Erdogan e il blocco di potere che lo esprime aborriscano una tale prospettiva e, pur di conservare a tutti i costi il proprio potere fragile e declinante, siano pronti a nuove stragi e distruzioni. Ma compito dell’opinione pubblica democratica è quello di contrastare tale deriva catastrofica, denunciando tutte le complicità di cui essa si alimenta.