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Possono raccontarci quello che vogliono. Ma i migranti non sbarcano sulle nostre coste perché c’è sole e mare calmo, né a causa degli scafisti. O delle Ong. Sbarcano perché nessuno gli rilascia un visto. Come invece ai filippini. Si chiamano overseas qui. Lavoratori d’oltremare. E sono 10,2 milioni, il 10% della popolazione. Il 20% della manodopera. Quasi la metà, 4 milioni, sta negli Stati Uniti. Un milione sta in Arabia Saudita, poi un altro milione in Canada. Nell’elenco l’Italia è dodicesima, primo Paese europeo con 113mila filippini. Assunti, appunto, come filippini: sono i nostri camerieri, autisti e giardinieri. Sempre precisi, puntuali. Obbedienti. Sempre a testa bassa. Invisibili. Qui, invece, sono degli eroi. Perché le rimesse sono il 10% del Pil. E se si aggiunge quello che arriva in nero, in contanti o sotto forma di beni in natura, la cifra raddoppia: 40 miliardi di dollari l’anno. Più degli investimenti dall’estero. O degli aiuti allo sviluppo. Quanto il bilancio del governo.

E partono legalmente. Normalmente. Partono, tornano. Ripartono. Il primo a volere una legge sull’emigrazione è stato Ferdinand Marcos nel 1974. Erano gli anni del petrolio e i Paesi del Golfo avevano bisogno di manodopera di ogni tipo. Il primo accordo fu siglato proprio con l’Arabia Saudita, e da allora lo Stato sovraintende a circa 1400 agenzie private di collocamento che non si limitano a trovarti un lavoro: ti preparano sia al nuovo lavoro sia, soprattutto, al nuovo Paese. E tecnicamente sono in realtà dei co-datori di lavoro, nel senso che sono corresponsabili dell’adempimento del contratto. Cosa che consente alle Filippine di avere voce, in caso di problemi. Di non lasciare soli i propri lavoratori. Soli e vulnerabili. Le agenzie si occupano di questo, più che di pratiche consolari: di selezionare e poi monitorare i datori di lavoro. Anche se la strategia di fondo è selezionare piuttosto i lavoratori. Scegliere solo i più qualificati. Non solo per incentivarli a formarsi, ma anche perché più si è qualificati, più si è tutelati. Specialmente in paesi come il Bahrain, il Kuwait, il Libano, in cui nessuno fa affidamento sui tribunali. Più si vale, più si è rispettati.

Naturalmente questo significa che partono i migliori. Spesso anche a parità di stipendio, o anche con uno stipendio minore, anche consapevoli che a Londra staranno peggio che a Manila: ma perché andare via non è solo una scelta economica. Non si cerca solo uno stipendio, un lavoro, ma un Paese: un Paese che funzioni. E invece Marcos istituzionalizzò l’emigrazione anche e soprattutto per ridurre le tensioni sociali: e quindi la pressione per le riforme. La domanda di cambiamento. Anche se alla fine gli overseas sostengono i consumi e poco più. Il 20% delle famiglie riceve denaro dall’estero, e il 60% beneficia in senso ampio delle rimesse: ma solo il 9% riesce a risparmiare un po’ e a investire. Investire magari in un negozio, una casa. Cose minime. Non è certo abbastanza per rilanciare un Paese in cui la vita è così dura che solo il 4,3% della popolazione arriva ai 65 anni. E il cui primo problema sono le infrastrutture. Le infrastrutture e la corruzione. Il solo Marcos ha sottratto alle casse dello Stato 10 miliardi di dollari. Per fronteggiare la povertà delle Filippine, più che guardare all’Arabia Saudita avrebbe potuto guardarsi allo specchio.

Non è semplice soppesare i pro e i contro di un sistema così. In termini economici, ma anche politici e sociali. E non solo per i filippini, per i Paesi di partenza, ma anche per noi. Ci rubano il lavoro? O ci aiutano a mantenere il welfare? A pagare le pensioni? E comunque, vengono per stare dove? A Riace o a Rosarno? Sono questioni aperte. Ma alla fine, è per questo che esistono le leggi. Per regolamentare. E valutare. Per provare a guadagnarci tutti. Invece che solo gli scafisti.

Oggi in edicola sul Fatto del Lunedì un reportage dalle Filippine sulla guerra alla droga di Duterte

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