Dubbi sui saldi della legge di Bilancio, perché il deficit/pil sarà probabilmente più alto di quanto prevede il governo, e sulle stime di crescita sia per il 2018 sia l’anno prossimo. Avvertimenti sul fatto che mancano “risorse per garantire un adeguato livello di servizi in comparti essenziali per la collettività”. E poi il calcolo dell’impatto del reddito di cittadinanza – che potrebbe spingere il pil di uno 0,2-0,3% – e delle novità fiscali, che si tradurranno in un aumento delle tasse per più di un terzo delle imprese. Quanto alla quota 100, chi chiederà di andare in pensione per quella via prenderà un assegno ridotto dal 5 fino a oltre il 30% visto che avrà pagato meno contributi rispetto a quanto richiesto dalla normativa in vigore. Sono i punti principali toccati dai rappresentanti di Istat, Corte dei Conti e Ufficio parlamentare di bilancio in audizione davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato.
“Economia in ulteriore flessione, obiettivi ambiziosi” – Il presidente facente funzioni dell’Istat, Maurizio Franzini, ha esordito spiegando che che per raggiungere l’obiettivo prefissato nella Nota di aggiornamento del Def (ovvero una crescita dell’1,2% nel 2018) sarebbe necessaria nel quarto trimestre “in termini meccanici una variazione congiunturale del Pil pari a +0,4%“. Ma la crescita è stata nulla nel terzo trimestre e l’indicatore anticipatore del ciclo economico “registra un’ulteriore flessione”, prefigurando una persistente “fase di debolezza“.
Aumentano tasse per un terzo delle imprese – Stando ai calcoli dell’Istat, nel complesso, i provvedimenti fiscali previsti in legge di Bilancio per le imprese generano una riduzione del debito di imposta Ires per il 7% della platea, mentre per più di un terzo le tasse risultano in aumento. L’aggravio medio di imposta è pari al 2,1%: l’introduzione della mini-Ires (-1,7%) non compensa gli effetti dell’abrogazione dell’Ace (+2,3%) e della mancata proroga del maxi-ammortamento (+1,5%). L’istituto spiega che l’effetto complessivo è legato alla maggiore selettività della mini-Ires rispetto all’Ace e al maxi-ammortamento: il beneficio dovuto alla detassazione prevista dalla mini-Ires riguarderebbe, infatti, una platea più ristretta di imprese. L’aggravio fiscale, rispetto alla normativa vigente, è maggiore tra le imprese fino a 10 dipendenti. Il combinato dei provvedimenti svantaggerebbe in misura minore le imprese manifatturiere ad alta tecnologia mentre a risentire di più della mancata proroga del maxi-ammortamento sarebbe un numero limitato di grandi imprese (soprattutto nei servizi ad alta tecnologia). Inoltre l’effetto complessivo dell’abrogazione dell’Ace e dell’introduzione dell’Ires agevolata è di ulteriore ampliamento dello squilibrio tra il finanziamento con capitale proprio e con debito a favore di quest’ultimo.
La simulazione sull’impatto del reddito: 0,2-0,3% del pil – Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, secondo il risultato della simulazione fornita dall’Istituto di statistica se corrisponderà “a un aumento dei trasferimenti pubblici pari a circa 9 miliardi” avrà un impatto dello 0,2% sul pil. “Questa reattività potrebbe essere più elevata, e pari allo 0,3%, nel caso in cui si consideri l’impatto del reddito di cittadinanza come uno shock diretto sui consumi delle famiglie”. L’effetto sul Pil in ogni caso terminerebbe “dopo 5 anni, quando la riduzione dell’output gap e il conseguente aumento dei prezzi annullerebbero gli effetti positivi della spesa pubblica“. Gli effetti positivi, dice ancora l’Istat, di questo scenario sono raggiunti “sotto l’ipotesi che nello stesso periodo non si verifichino peggioramenti delle condizioni di politica monetaria, ovvero che non ci siano aumenti dei tassi di interesse di breve termine”.
“Problemi di equità, tenere conto della casa di proprietà” – Franzini si è soffermato anche sul nodo della proprietà di una casa. Vi è un “problema di equità” che “potrebbe essere risolto in diversi modi, ed in particolare fissando soglie di accesso che tengano conto, oltre che dei diversi livelli di reddito, anche delle condizioni di godimento dell’abitazione“. Secondo la relazione, quattro famiglie su 10 sotto la soglia di povertà (il 40,7%) vivono in case di proprietà, sulle quali una su 5 paga un mutuo medio di 525 euro, mentre il 15,6% in abitazioni in uso o usufrutto gratuito. Il 43,7% vive invece in affitto, quota che è “particolarmente elevata nei centri metropolitani (64,1%) e nel Nord del Paese (50,6%). La spesa media effettiva per l’affitto è di 310 euro”.
Corte dei conti: “Polarizzazione delle risorse e dubbi sui tempi di avvio” – In audizione è giunta anche la relazione della Corte dei conti, nella quale si sottolinea che, dato il rallentamento della crescita del pil, “l’obiettivo della crescita dell’1,5% per il 2019 richiederebbe una ripartenza particolarmente vivace, e una ripresa duratura”. Il documento, illustrato dal presidente Angelo Buscema, focalizza l’attenzione sulla “polarizzazione” delle risorse su ”limitati interventi”, decisa dal governo per la manovra del 2019, che si “traduce in una carenza di risorse per affrontare nodi irrisolti e garantire un adeguato livello di servizi in comparti essenziali per la collettività”. Delle maggiori spese previste dalla legge di Bilancio, secondo i calcoli della Corte pari a “circa 22,6 miliardi, più dell’80% spese correnti“, circa “il 40% è destinato agli interventi per l’inclusione sociale – il reddito di cittadinanza – il 30% alle misure relative alle pensioni e poco meno del 17% al sostegno degli investimenti delle amministrazioni centrali e quelle locali”. Ci sono poi diversi dubbi sui “tempi di avvio” delle nuove misure, alla luce del “ricorso a nuove strutture organizzative da avviare e la necessità di ridisegnare il funzionamento dei nuovi strumenti”, e “sulla efficacia degli interventi” in una fase “in cui il successo delle scelte assunte con la manovra è strettamente legato alla capacità di stimolare l’economia“.
“Flat tax può spingere a occultare prestazioni. Rischio di incostituzionalità del condono” – Riguardo alla flat tax, spiega Buscema, bisogna “valutare attentamente gli effetti negativi” dell’ampliamento del regime dei minimi sia “in termini di rinvio della fatturazione, allo scopo di non superare la soglia di legge o, peggio, spingendo all’occultamento tout court delle prestazioni effettuate” (questo perché l’anno prossimo sarà riservata a chi guadagna fino a 65mila euro) sia per gli effetti sul “mercato del lavoro”. L’ampliamento “può o indurre i nuovi contribuenti e le imprese datoriali a preferire l’assoggettamento a tale regime” piuttosto che “costituire nuovi rapporti di lavoro dipendente“. Quanto al condono, e in particolare alla possibilità di presentare una dichiarazione integrativa pagando una aliquota del 20% sui maggiori imponibili dichiarati, “non possono non essere espresse perplessità di ordine costituzionale per il fatto di riservare, a coloro che si mettono in regola con l’integrazione, un trattamento più vantaggioso rispetto ai contribuenti corretti”.
L’Upb: “Per noi deficit al 2,6%. Incertezze su tempi e effettiva realizzazione degli investimenti” – Nelle valutazioni più recenti dell’Ufficio parlamentare di bilancio, che incorporano la manovra al suo valore facciale, il deficit “si posizionerebbe nel 2019 al 2,6% del Pil”, ha spiegato il presidente dell’Upb Giuseppe Pisauro. “Le divergenze rispetto alla stima della Nadef e a quella recentemente diffusa dalla Commissione europea sono imputabili alla diversa previsione sulla crescita economica e all’impatto dell’aumento dello spread sulla spesa per interessi“. In particolare “le grandezze della finanza pubblica programmate dal Governo appaiono soggette a rischi (indebolimento del quadro macroeconomico e impatto dell’evoluzione recente dei tassi di interesse) e incertezze (l’efficacia delle misure di razionalizzazione della spesa, i tempi di attuazione delle norme sul ‘reddito di cittadinanza’ e sulla riforma del sistema pensionistico, l’effettiva realizzazione dei valori programmatici della spesa per investimenti)”. Peraltro sul fronte degli investimenti, nota l’Upb, sono previsti tagli: “nell’ambito della Sezione seconda del DDL di bilancio si trovano riprogrammazioni e definanziamenti consistenti riguardanti trasferimenti a favore delle Ferrovie dello Stato per il solo 2019 e tagli permanenti alla spesa in conto capitale dei Ministeri, cui si sommano i risparmi dovuti al contenimento delle spese militari”.
“Con quota 100 pensione ridotta fino a oltre il 30%” – L’authority indipendente ha anche fatto i conti sull’introduzione della quota 100 per superare la riforma Fornero. La platea potenziale per il 2019 sarebbe di “437.000 contribuenti attivi”, per circa il 43% dipendenti privati (pari a 220mila persone) e per il 36% dipendenti pubblici (oltre 156mila). Se uscissero tutti ci sarebbe un “aumento di spesa lorda per 13 miliardi“. Quindi nello stanziamento fatto dal governo, pari a 6,7 miliardi di euro, “è incorporata l’idea che la metà” delle persone che potrebbe utilizzare la misura “non vada in pensione”. “Speriamo che ad alcuni non convenga perché altrimenti la spesa sarebbe di 13 miliardi di euro”, ha commentato Pisauro. Ma a prima vista non converrà troppo: “Chi optasse per quota 100”, stando ai calcoli dell’Upb, “subirebbe una riduzione della pensione lorda rispetto a quella corrispondente alla prima uscita utile con il regime attuale da circa il 5 per cento in caso di anticipo solo di un anno a oltre il 30 per cento se l’anticipo è di oltre 4 anni”. Il presidente Inps Tito Boeri aveva parlato di penalizzazioni fino al 21 per cento. “Tuttavia – sottolinea la relazione – va considerato che in caso di anticipazione la rata pensionistica, di ammontare più basso, verrebbe erogata per un maggior numero di anni rispetto all’uscita con le regole Fornero. Per tenere conto di entrambi questi fattori è necessario confrontare i valori attuali delle due rendite pensionistiche lorde nell’anno in cui si decide di sfruttare quota 100″. Eseguendo questo confronto, “il disincentivo è, come nel caso della differenza percentuale tra le due rate pensionistiche, crescente all’aumentare degli anni di anticipo pensionistico e raggiunge valori intorno all’8 per cento in caso di anticipo di oltre 4 anni”.
Nel 2019 previsti 51mila terzi figli – L’Istat ha parlato anche del numero di terzi figli previsti nel 2019, a proposito dell’incentivo previsto in manovra. Ipotizzando costanti sia i tassi di fecondità osservati nel 2017 per ordine di nascita, sia la popolazione femminile residente tra i 15 e 49 anni al 1 gennaio 2018, si stima “circa 51mila” nascite nel prossimo anno. Questo numero, ha spiegato Franzini, “era intorno ai 53mila tra il 2013 e 2015 e intorno a 51mila tra il 2016 e 2017”.