L'ex militare, esperto di guerre elettroniche, scomparve a Velletri nel 1990. La famiglia ha sempre lottato per ottenere verità, nonostante le "resistenze" del ministero della Difesa. A gennaio la moglie e i figli avevano vinto una causa civile e ottenuto un risarcimento simbolico per la "violazione del diritto alla verità", ma il governo Gentiloni aveva impugnato il provvedimento. Ora la marcia indietro di Trenta: "La famiglia merita rispetto e verità". La moglie: "Gesto di umanità. Ora commissione d'inchiesta"
Lo Stato chiude la sua “battaglia” con la famiglia di Davide Cervia, il sergente esperto di guerra elettronica scomparso misteriosamente a Velletri 28 anni fa. La ministra Elisabetta Trenta ha disposto di ritirare il ricorso contro la condanna inflitta alla Difesa a risarcire i famigliari “per avere violato il loro diritto alla verità” sul presunto rapimento dell’allora 31enne e quindi di “riconoscere gli errori dello Stato, verso una famiglia che merita rispetto e verità”. La ministra spiega di aver incontrato la moglie e i figli e di aver chiesto scusa: “Ora lo faccio pubblicamente – ha scritto su Facebook – Se lo Stato sbaglia deve riconoscere i propri errori. La difesa dei cittadini al primo posto”.
Lo Stato, a gennaio, era infatti stato condannato a risarcire con la cifra simbolica di un euro richiesta dalla famiglia di Cervia. La decisione assunta dai giudici era stata impugnata dal ministero guidato da Roberta Pinotti durante il governo Gentiloni. Ora, su input di Trenta, la Difesa si ritira ammettendo implicitamente quanto stabilito dal tribunale sul “caso Cervia”. Originario di Sanremo, scomparve a Velletri il 12 settembre 1990. Arruolatosi in Marina a 19 anni, Cervia diventa un esperto in guerra elettronica. Nel 1984 si congeda con il grado di sergente.
Sei anni dopo – mentre rientra a casa con un mazzo di fiori per sua moglie – viene rapito, come confermato dalle ipotesi dei magistrati romani che non sono riuscì però a individuare i responsabili. La sua scomparsa viene inizialmente rubricata come allontanamento volontario, ma due testimoni riferiscono di aver assistito al rapimento: uno vede un uomo spingerlo a forza in una vettura verde; un altro afferma di aver incrociato la sua Golf nera seguita proprio da quell’automobile verde. A lungo i due vengono ignorati dalla procura di Velletri, mentre la famiglia ipotizza da subito che il sequestro sia da ricondurre alle sue conoscenze tecniche e militari.
Gli anni seguenti sono un susseguirsi di episodi inquietanti. Circa dodici mesi dopo il rapimento, viene ritrovata la vettura con cui i testimoni dicono di aver visto fuggire i rapitori di Cervia e il loro ostaggio: dentro c’è ancora il mazzo di fiori che l’ex militare aveva comprato per la moglie. Subito dopo, la famiglia riferisce di aver ricevuto un’offerta di un miliardo di lire per “lasciare perdere” e tacere. Il suo nome, nei mesi seguenti al rapimento, compare anche su un volo Air France da Parigi a Il Cairo. E nel 1997 la moglie racconta anche di aver ricevuto una telefonata con la sua voce registrata.
Molte le lettere anonime ricevute negli anni dai familiari: in una c’era scritto che Cervia sarebbe morto in un bombardamento a Baghdad, in un’altra lo si dava prigioniero in Libia o in Arabia Saudita. Altre piste portano in Iran, in Russia – con riferimento al furto di tecnologie militari e alla vendita di tali segreti al Kgb – ma anche in Somalia e nel Sahara Occidentale. Alcune missive erano di minaccia e intimavano alla famiglia il silenzio. Al quale la moglie, il padre e i figli non si sono mai rassegnati. Nonostante nel 2000 la Procura generale presso la Corte d’appello di Roma, pur confermando l’ipotesi del rapimento, archivia il fascicolo per l’impossibilità di individuare i colpevoli.
Così, senza alcuna verità né giustizia per la scomparsa del loro congiunto, nel 2012 la famiglia fa causa al Governo, in sede civile, e lo scorso gennaio il ministero della Difesa viene condannato al risarcimento di un euro, la somma simbolica chiesta dalla moglie e dai due figli di Cervia, per “avere violato il loro diritto alla verità”. Vale a dire il diritto “a chiedere e ad ottenere, dai soggetti che le detenevano, ogni notizia ed ogni informazione relativa al proprio congiunto, al fine della individuazione delle ragioni della sua scomparsa”. Secondo il tribunale, in particolare, la Marina non avrebbe fornito informazioni “tempestive, esatte e complete” sul conto di Cervia. Basti pensare che la specializzazione dell’ex militare in “guerre elettroniche” saltò fuori solo dopo cinque fogli matricolari diversi forniti e l’occupazione del ministero per nove ore da parte dei famigliari. Quelle informazioni taciute dagli uffici della Difesa, secondo legali della famiglia, se conosciute avrebbero potuto salvare la vita dell’ex militare.
“Ho dato indicazione di rinunciare all’impugnazione. Dopo un’attenta lettura degli atti in possesso dell’amministrazione, ho scelto di riconoscere gli errori dello Stato nei confronti di una famiglia che merita rispetto e verità”, scrive Trenta aggiungendo che sarà “felice di accoglierli prossimamente presso il ministero”. Ringraziando Trenta, la moglie di Cervia, Marisa Gentili, parla di un “gesto di umanità mai ricevuto finora”. Ma “adesso la politica, se ha davvero intenzione di far luce sulla scomparsa di mio marito, istituisca un’apposita commissione parlamentare di inchiesta”, aggiunge. “Dietro il suo rapimento – spiega – potrebbe esserci il traffico di armi e il depistaggio da pezzi dello Stato deviati“.
Secondo Gentili, supportata in questi anni dai legali Alfredo Galasso e Licia D’Amico, suo marito Davide sarebbe stato “rapito per essere portato in uno dei luoghi che fu teatro della prima guerra del Golfo, in un ambiente militare controllato, dove può ancora servire”. A sequestrarlo “potrebbe essere stata un’organizzazione supportata da pezzi deviati dello Stato, che hanno bisogno di inviare, ai Paesi acquirenti di armi sofisticate, anche uomini che garantiscano un certo tipo di manutenzione agli armamenti“.