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Gioachino Rossini, il presidente del Festival dei record: “Ha cambiato il gusto dell’epoca con musica popolare: lo fanno solo i giganti”

Intervista a Ernesto Palacio, il tenore che guida la manifestazione che celebra il compositore di Pesaro e che quest'anno ha battuto tutti i primati (18mila spettatori e un milione e 400mila euro di incassi). "Il rinascimento? Grazie ad Abbado e a Zedda che hanno insegnato a rispettarne la grandezza. D'altra parte la sua presenza a Parigi ha aiutato tanti altri, da Bellini a Donizetti"

di Fabrizio Basciano

“Rossini ha cambiato radicalmente il gusto dell’epoca e queste sono cose che fanno solo i giganti: la musica che lui faceva nel suo tempo è quella che noi oggi chiamiamo popolare“. Ernesto Palacio, con la sua voce da tenore per decenni ha celebrato sul palco Gioachino Rossini, di cui oggi ricorrono i 150 anni dalla morte. E ora continua a farlo da direttore artistico e sovrintendente del Rossini Opera Festival, pellegrinaggio imperdibile per chi ama il compositore pesarese. Dimenticato per un certo periodo del Novecento e ritrovato col passare degli anni fino al nuovo trionfo di questi anni. Il festival ha celebrato il suo Rossini insieme a una folla record: oltre 18mila spettatori ed un incasso di 1 milione e quasi 400mila euro, i dati più alti della storia della manifestazione.

In occasione del 100esimo anniversario della sua morte, nel 1968, Rossini era per lo più conosciuto quale autore del Barbiere di Siviglia. Quanto è cambiato in questi ultimi cinquant’anni intorno alla figura e alla musica di Rossini?
È cambiato tutto, radicalmente. Rossini è l’autore che negli ultimi cinquant’anni è cambiato di più rispetto a tutti gli altri grandi della composizione. Quando sono arrivato in Italia, nel 1968, Rossini era ancora molto relegato a una specie di avanspettacolo. Poi, soprattutto grazie a direttori come Claudio Abbado e Alberto Zedda, si è capito che era un autore da rispettare, cominciando a fare titoli all’epoca poco conosciuti: ricordo a proposito nel ’73 l’inaugurazione dell’Opera di Roma con la Gazza ladra diretta da Alberto Zedda, dove cantai anch’io.

Abbado ebbe nella cosiddetta “Rossini renaissance” un ruolo centrale: la sua tenacia nell’eseguire Rossini così come si eseguivano i tedeschi gettarono le basi di un nuovo, più alto rispetto verso la figura del compositore. Che ricordo ha di lui e cosa pensa dei giovani direttori rossiniani?
Claudio Abbado era immenso e soprattutto insegna una cosa a tanti direttori di oggi, a quelli che sbagliano nel considerare Rossini come qualcosa di minore: insegna a rispettarlo e a rispettarne la grandezza. Noi, qui a Pesaro, abbiamo tanti direttori giovani che hanno capito Rossini e che impressionano per le proprie grandi interpretazioni rossiniane: penso, per esempio, a Yves Abel, Giacomo Sagripanti e Michele Mariotti.

Quest’anno l’Accademia Rossiniana da lei diretta ha compiuto trent’anni, e giovani talenti da tutto il mondo hanno concluso la stagione con uno splendido concerto finale: qual’è lo scopo principale dell’Accademia e cosa è riuscita a realizzare nei decenni?
L’Accademia Rossiniana dura solo due settimane, dunque non è ovviamente per principianti e la selezione è veramente dura: diciotto partecipanti su più di duecento domande. Se però vediamo chi, nel corso degli anni, ha partecipato all’Accademia troviamo certamente nomi illustri, di quelli che oggi girano dappertutto, da Daniela Barcellona ad Antonino Siragusa, Carlo Lepore, Paolo Bordogna e tanti altri cantanti molto importanti.

L’Accademia è intitolata a un’altra figura cruciale della Rossini renaissance, quella del direttore Alberto Zedda, scomparso nel marzo del 2017: può condividere un suo ricordo del grande musicista e del suo ruolo nella rinascita del repertorio rossiniano?
Alberto Zedda è stato fondamentale. Lui raccontava di come si era avvicinato alle revisioni di Rossini, in modo del tutto casuale, salvo poi diventare un vero punto di riferimento per Rossini. Era il nostro nonno buono, con tanto amore per l’insegnamento: ogni tanto aveva delle sfuriate, ma si spegneva subito. Era una persona buonissima, una persona che sapeva tanto, e aveva una cosa che io ammiro molto: nutriva molti dubbi. Avere solo certezze non è, a mio avviso, segno d’intelligenza: bisogna capire che non c’è una sola verità.

I concerti dal balcone di casa Rossini è un’altra delle fortunate iniziative dell’Accademia Rossiniana, e si ricollega storicamente al concerto che Rossini stesso diede dal balcone di casa durante il suo periodo viennese. In tempi più recenti divi del rock, come Beatles e U2, hanno fatto propria questa usanza. Possiamo dire in questo senso che Rossini fu quasi una rockstar del suo tempo?
Indubbiamente. Bisogna ricordare che Rossini è il padre di tutti: è vero che a trentasette anni ha smesso di comporre opere, ma con la sua presenza a Parigi ha aiutato tanti altri musicisti, come Bellini e Donizetti. Lui ha cambiato radicalmente il gusto dell’epoca, e queste sono cose che fanno solo i giganti. La musica che lui faceva nel suo tempo è quella che noi oggi chiamiamo popolare.

Nel tempo la ricerca rossiniana si è quasi completamente concentrata sulle edizioni critiche delle sue opere, ma ancora non si ha ancora un epistolario completo del grande compositore pesarese. Non crede la figura di Rossini sia, ancora oggi, poco conosciuta e vittima di molti luoghi comuni?
Don Magnifico nella Cenerentola dice: “È un pozzo di bontà. Più se ne cava più ne resta a cavar”. Con questo voglio dire che la quantità di cose che si continuano a scoprire tra manoscritti, lettere, ecc. fa sì che il lavoro non sia mai finito. La Fondazione Rossini è molto attenta anche all’epistolario, a cura di Sergio Ragni. Come dice lei è vero che ancora oggi sono molto diffusi i luoghi comuni e poco la vera conoscenza di una figura decisamente complessa, quella di un personaggio con molte sfaccettature che occorrerebbe certamente conoscere meglio.

Il Rossini Festival ha celebrato più che degnamente il 150esimo anniversario rossiniano, e oltre alla Petite messe solennelle, in programma oggi a Parigi, domani chiude eseguendo a Pesaro lo Stabat Mater: quali sono gli obiettivi futuri del Rossini Opera Festival?
Il prossimo anno il Festival compie quarant’anni. Quest’anno, per il 150esimo anniversario, abbiamo fatto, tra mostre, conferenze e concerti, un’infinità di eventi. Il primo marzo prossimo faremo La cambiale di matrimonio. Quindi, anche se il mese di agosto resta sicuramente il punto fermo del Festival, cerchiamo di fare anche nel resto dell’anno altre manifestazioni. L’edizione del 2019 vedrà una nuova produzione di Semiramide con la direzione di Michele Mariotti e un’altra nuova produzione de L’equivoco stravagante con la direzione di Carlo Rizzi. Poi vi sarà una ripresa, quella della prima opera scritta da Rossini, Demetrio e Polibio.

Rossini, rivolgendosi a Dio, in calce all’Agnus Dei della Petite messe solennelle scriveva: “Ero nato per l’opera buffa, lo sai bene! Poca scienza, un poco di cuore, tutto qua. Sii dunque benedetto e concedimi il Paradiso”. Molti, nel tempo, hanno accusato questa messa di essere eccessivamente teatrale. Lei cosa pensa a riguardo?
Il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, nel mese di febbraio scorso ha fatto dono a Papa Francesco la partitura della Petite messe solennelle, e leggendogli le parole che lei ha appena riportato, si è sentito rispondere dal Papa: “Probabilmente si stava raccomandando per raggiungere il paradiso, dove si vede che c’era un bel banchetto in programma!”. Sull’eccessiva teatralità dico che basta ascoltare l’Agnus Dei per commuoverci e piangere tutti: è una musica sublime, che personalmente trovo fantastica.

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