Se il governo in carica cercava un modo sbagliato per iniziare uno scontro con i giornalisti e il sistema dei media, allora lo ha trovato al primo colpo. Insulti e sparate sono cadute di stile e funzionano bene per compattare una categoria che più debole, divisa e in crisi d’identità non si può. Certamente non per mettere in evidenza cosa non va nell’informazione italiana.
Quello del giornalismo è un paradosso: nell’era dove tutto è informazione, l’informazione tout court non vale più nulla, i giornali chiudono e il numero di giornalisti è in rapido declino. In Italia lo stato di putrefazione di questa attività è ben avanzato: in dieci anni le testate hanno (più che) dimezzato il numero delle copie vendute e dei redattori, la stragrande maggioranza dei giornalisti svolge l’attività senza contratto, con pagamenti a pezzo oppure – semplicemente – scrive a titolo volontario. In Italia, nel 2018, si vendono meno giornali che in Olanda, Paese con un terzo della popolazione, e i modelli con paywall o abbonamento digitale non sembra riescano a decollare. Ecco, il vicepremier ha scelto – per sganciare la bomba atomica – un contesto professionale già pesantemente compromesso.
La crisi economica, Internet e la disaffezione nei confronti della politica e di una professione considerata da molti – troppi – un passatempo travestito da impiego hanno già spazzato via gran parte delle realtà indipendenti e rischiano di mettere seriamente a rischio la sopravvivenza di tutte le testate. A breve potrebbero rimanere solo il giornalismo amatoriale, mentre l’angusto perimetro di quello professionale potrebbe essere diventato solo appannaggio di pochi benestanti.
Eppure, se i giornalisti fossero rispettati, avessero l’autorevolezza di una volta e soprattutto godessero di una posizione economica solida, gli insulti da parte di esponenti del governo alla categoria sarebbero niente più che materiale per Crozza o per qualche vignetta satirica. Purtroppo la crisi ha colpito tutto, la tasca e i valori, stritolando la professione e costringendo lavoratori ed editori a una spirale senza fine di compromessi al ribasso. Che hanno messo in discussione tanto la capacità negoziale interna quanto il prodotto finale: poche sezioni tengono in piedi i quotidiani o i periodici mentre esteri, cultura e altre categorie di qualità – ma con meno seguito – sono letteralmente sparite. Se un tempo i media contribuivano a educare o indirizzare la popolazione, oggi sono ridotti a rincorrere l’agenda che fa più rumore. Da watchdog a pet, il passaggio è stato più breve di quanto si potesse immaginare.
Il mondo del giornalismo in Italia, insomma, è un corpo in avanzato stato di decomposizione già da prima che i 5 stelle lanciassero questa facile e remunerativa campagna contro chi appare all’esterno ancora tanto forte e autorevole, ma campa solo di rendita sul glorioso passato. Un grande bluff alimentato in primis dall’immagine che diamo noi giornalisti: il cittadino medio è convinto di parlare a un potente, membro di una casta chiusa e monolitica, mentre nella realtà gran parte di chi svolge questo lavoro – e non può contare su altre entrate – vive ben al di sotto della soglia di povertà, senza alcun potere negoziale, saltando da una collaborazione occasionale all’altra. Se “puttane” e “pennivendoli” deve essere, almeno che sia a champagne e caviale, non a pizza al taglio e Peroncino dell’alimentari.
Se bersaglio del governo è quel piccolo club privato di firme note oppure l’esercito di precari che fatica a mettere insieme pranzo e cena, non è dato sapere. Certamente se il mondo dell’informazione italiano sapesse autotutelarsi un po’ meglio, a partire dal tutelare la sua stessa sopravvivenza pagando il lavoro e garantendogli continuità, non avrebbe bisogno della protezione simbolica di quel buffo ente pubblico che per ora rappresenta la categoria. L’ente in questione, l’Ordine dei giornalisti, è tanto incomprensibile quanto inspiegabile a chi lontano dai confini nazionali svolge questa professione. Come fai, da giornalista, a dire ai colleghi stranieri che in Italia esiste una pseudo funzione religiosa anche per fregiarsi del titolo di giornalista? E soprattutto, a quelli che chiedono “E se scrivi su un giornale senza permesso di questa organizzazione, cosa succede?”, cosa rispondi di sensato?
Probabilmente dovresti rispondere che l’Italia è l’unico Paese in Europa dove – sulla carta – i giornalisti godono delle tutele di un ente pubblico eppure sono quelli più odiati dai concittadini e meno pagati del continente. In Olanda, dove vivo, sono iscritto al Nvj (Nederland Vereninging van Journalisten), associazione olandese dei giornalisti, un’organizzazione di categoria che tutela la deontologia, tutela il lavoro degli iscritti e nella quota annuale offre anche assistenza legale, il commercialista, corsi di aggiornamento e si impegna per aiutare gli iscritti a trovare lavoro retribuito. Nei Paesi Bassi la professione non è disciplinata e diventa giornalista chi scrive o lavora come giornalista. Semplice, no? La responsabilità della tutela della deontologia è divisa tra le testate e le associazioni di categoria, senza bisogno dell’investitura feudale di un ente che l’Italia ha ereditato dal periodo più buio della sua storia recente.
In Olanda per ottenere il tesserino è necessario mostrare attività giornalistica recente: l’associazione non vuole creare circoli del tennis ma garantire che videomaker, editor on line, freelance della carta stampata, data journalists, vignettisti, fotografi e le altre mille sfaccettature di questa complessa attività godano della tutela necessaria.
Viene da sé che giornalisti ben pagati e motivati, in un sistema mediatico sano dove i giornali chiudono ma ne aprono poi degli altri, dove si sperimenta con forme ibride di informazione e lo Stato investe attivamente con fondi appositi per le start-up giornalistiche, nessuno ha bisogno di tutele solenni o club privati. E soprattutto, nessuno teme il politico chiacchierone di turno.