Dopo le stragi del 1992 e 1993 Cosa nostra aveva pensato di sequestrare Antonio Ardizzone, storico editore del Giornale di Sicilia. Il motivo? “A scopo estorsivo“. A raccontarlo è il pentito Giovanni Brusca. Il boia di Capaci ha deposto al processo a un altro grande editore del Sud Italia: Mario Ciancio Sanfilippo, accusato di concorso esterno a Cosa nostra e destinatario nelle scorse settimane di un sequestro milionario. “Cosa nostra a Palermo aveva pensato di sequestrare Ardizzone a scopo di estorsione”, ma poi il progetto non fu realizzato, ha detto il collaboratore, in video conferenza col tribunale di Catania, sollecitato dal pm Antonino Fanara.
Del piano aveva già parlato il pentito Gaspare Spatuzza, che lo aveva collocato temporalmente “dopo le stragi del 1992 e del 1993“. Brusca, rispondendo alle domande del pm che in aula rappresenta l’accusa insieme ad Agata Santonocito, ha detto anche che “c’era un articolista del giornale che scriveva pezzi a favore dei cugini Salvo“.
Il pentito ha poi parlato dei rapporti “dei cavalieri del lavoro Costanzo” con Cosa nostra perché “erano interessati agli appalti pubblici a Palermo”. Tra questo ha citato la realizzazione del Palazzetto dello sport per il quale “ci fu un incontro a Palermo tra il cavaliere Costanzo, i cugini Salvo e Totò Riina“. Lui non partecipò alla riunione, limitandosi “ad accompagnare” il capo dei capi. Alla domanda se il Palazzetto dello Sport e il Palazzo di vetro fossero la stessa cosa, ha risposto di non saperlo. Ha confermato il ruolo di Angelo Siino come “delegato di Cosa nostra per gli appalti” e di sapere chi fosse il medico Mercadante, che, ha detto, “era a disposizione”, ma di “non averlo conosciuto”.
A conclusione dell’udienza l’accusa ha depositato agli atti del processo il decreto di sequestro e confisca dei beni di Ciancio Sanfilippo e il dispositivo d’appello della difesa, presentato dagli avvocati Carmelo Peluso, Francesco Colotti e Nerio Giuseppe Diodà. Il processo è stato aggiornato al prossimo 15 gennaio con l’audizione dei pentiti Gaetano D’Aquino e Santo La Causa, che non sono stati sentiti oggi per problemi nei collegamenti della videoconferenza.
A Ciancio sono stati sequestrati beni per 150 milioni di euro. I sigilli sono scattati per il quotidiano La Sicilia, il giornale di Catania molto letto anche nel resto dell’isola. E poi le quote della Gazzetta del Mezzogiorno, il principale quotidiano di Bari. Sigilli anche a due emittenti televisive: Antenna Sicilia e Telecolor.
Lunga e tormentata la storia giudiziaria dell’imprenditore, rinviato a giudizio arrivato nel 2017 dopo un lunghissimo iter giudiziario. La procura di Catania aveva aperto l’indagine a carico di Ciancio nel 2007, ma nel 2012 ne aveva chiesto l’archiviazione. Richiesta bocciata dal gup Luigi Barone, che aveva disposto la trasmissione degli atti ai pm. Gli inquirenti avevano a quel punto chiesto il rinvio a giudizio dell’editore, raccogliendo il pollice verso da parte del gup Bernabò Distefano nel dicembre del 2015. Una decisione che aveva sollevato parecchie polemiche – con il presidente dell’ufficio gip di Catania, Nunzio Salpietro, che aveva preso le distanze dalla sentenza – visto che nelle sue motivazioni Distefano faceva a pezzi il reato di concorso esterno definito come “una figura che si potrebbe definire quasi idealizzata nell’ambito di un illecito penale così grave per la collettività”. Un giudizio completamente ribaltato dalla Suprema Corte, che ha accolto l’appello della procura contro il proscioglimento di Ciancio. Secondo gli ermellini “non si sorregge in alcun modo la conclusione della non configurabilità della fattispecie del concorso esterno nel reato associativo” che ha di principio “una funzione estensiva dell’ordinamento penale, che porta a coprire anche fatti altrimenti non punibili”. È per questo motivo che dodici mesi fa un nuovo gup – il terzo a occuparsi della vicenda Ciancio in dieci anni di indagini – ha ordinato il processo per l’editore catanese, ormai 86enne.