Il primo ministro Tory ha annunciato il risultato della riunione del governo durata 5 ore: "Decisione presa nell’interesse nazionale, mantiene la promessa del referendum". Soddisfazione di Barnier, capo negoziatore Ue: "Tappa determinante". Ora il voto alla Camera dei Comuni tra diverse insidie: un partito spaccato, un'opposizione compatta e il rischio di una mozione di sfiducia
Dopo una riunione di cinque ore a Downing Street, Theresa May ha ottenuto il sì del governo conservatore alla bozza di accordo concordata con l’Unione Europea sulla Brexit. Secondo l’intesa annunciata lunedì dopo due anni di negoziati, la Gran Bretagna dovrebbe restare nell’unione doganale europea fino a quando non sarà trovata una soluzione per la questione del confine tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda. Secondo la bozza del piano, l’Ulster continuerebbe a far parte di una sorta di mercato unico e resterebbe ancora più legata all’Europa. Ma l’intesa è ancora tutta da portare a termine sotto il fuoco nemico ingaggiato da tutti i lati del fronte interno britannico, a cominciare dalle trame per una mozione di sfiducia contro la leadership della premier agitate stanotte dai falchi Tory ultrà.
“La scelta di portare avanti questo accordo è difficile, sopratutto in relazione alla clausola di salvaguardia per l’Irlanda del Nord”, ha affermato May al termine della riunione del governo di fronte al portoncino al numero 10 di Downing Street. Secondo il primo ministro, tuttavia, “questo è un passo decisivo che ci permette di andare avanti e di finalizzare l’accordo nei prossimo giorni”. “Quando elimini i dettagli – ha affermato – la scelta che abbiamo di fronte è chiara. Questo accordo esprime il voto del referendum, ci riporta al controllo dei nostri soldi, delle leggi e dei confini, pone fine alla libera circolazione, protegge i posti di lavoro, la sicurezza e la nostra unione”.
Adesso “ci sono giorni difficili davanti a noi, ma l’accordo è nell’interesse nazionale e mantiene la promessa del referendum”. “Credo fermamente con la testa e il cuore che questa sia una decisione che è nell’interesse di tutto il Regno Unito”, ha concluso May. L’alternativa sarebbe stata “tornare alla casella numero 1” – ossia come l’unica alternativa allo spettro del ‘no deal‘ – e rischiare di non attuare il mandato referendario.
Per May si tratta comunque di un modo per andare avanti sulla strada della Brexit, di rispettare il mandato popolare del referendum del 2016 evitando al contempo una rottura traumatica con i 27, chiamati adesso a loro volta a sancire la svolta, innescando con un vertice straordinario da convocare con ogni probabilità il 25 novembre l’iter verso le ratifiche parlamentari, entro il termine fissato da Londra per la sua uscita formale dal club: il 29 marzo 2019.
Sui contenuti della bozza, spalmati in ben 500 pagine e sintetizzati in un libro bianco diffuso stasera, si sapeva già l’essenziale. Confermati gli impegni sulla tutela dei diritti dei cittadini ‘ospiti’, sul conto di divorzio britannico da 39 miliardi di sterline, su una fase di transizione improntata allo status quo di (almeno) 21 mesi, vi s’illustra nei dettagli anche la soluzione ‘a toppè architettata per assicurare il mantenimento d’un confine senza barriere fra Irlanda e Irlanda del Nord: con una permanenza temporanea dell’intero Regno nell’unione doganale in attesa di un successivo accordo complessivo sulle relazioni future post Brexit fra Londra e Bruxelles.
Soluzioni di compromesso che qualcuno già liquida come un patchwork destinato a non funzionare. “Il peggiore dei due mondi”, dicono all’unisono, da sponde opposte, il rampante conservatore euroscettico radicale Jacob Rees-Mogg e il vecchio ex primo ministro laburista eurofilo Tony Blair. Un’intesa che “non soddisfa né i sostenitori di Leave, né quelli di Remain come me”, insiste Blair, ricomparendo sugli schermi della Bbc per tornare a invocare quel secondo referendum che May continua categoricamente a escludere.
Soddisfazione per l’ok del cabinet arriva da Bruxelles. “Questo accordo rappresenta una tappa determinante per concludere questi negoziati”, ha detto Michel Barnier. “Considero che questa sera sono stati fatti progressi decisivi” per un “ritiro ordinato” della Gran Bretagna dall’Ue e per gettare le basi per “la relazione futura” tra le due, ha sottolineato il capo negoziatore dell’Ue. Sarà “possibile estendere il periodo di transizione” della Brexit di 21 mesi previsto dal 29 marzo 2019 al 31 dicembre 2020 “attraverso un accordo congiunto” nel caso in cui “non saremo pronti per il luglio 2020” a un accordo definitivo sulla frontiera irlandese. E “solo se giungerà al termine il periodo di transizione senza accordo, allora scatterà il backstop” sui cui è ora stata trovata un’intesa. “Siamo giunti a un momento importante in questi negoziati straordinari” sulla Brexit, ha concluso Barnier, ma “resta molto lavoro da fare, il cammino è ancora lungo e difficile per garantire un’uscita ordinata e costruire un partenariato futuro”.
La partita è ancora tutta da giocare. E da giocare soprattutto in casa britannica. May dovrà infatti affrontare le incognite di un voto parlamentare, che potrebbe essere calendarizzato la prima settimana di dicembre, dove le opposizioni – al di là delle divisioni fra chi invoca il referendum bis e chi, come il leader del Labour, Jeremy Corbyn, punta invece sulla strada di elezioni anticipate per tagliare i nodi – sembrano compatte sul piede di guerra.
Ma prima ancora di approdare in aula, il problema della premier è salvare la sua poltrona e la maggioranza dall’implosione. Uno scenario tutt’altro che remoto a giudicare dalle divisioni intestine e dai malumori frastagliati dei Tories scontenti: da un lato quelli dei ‘brexiteers’ duri e puri, fra 40 e 80 deputati a seconda delle stime, alcuni dei quali si sono già rivolti a Graham Brady, presidente del comitato organizzativo 1922, per presentare istanze di mozione di sfiducia contro lady Theresa; dall’altra quelli dei moderati pro-Remain (12 o poco più), ormai unitisi al coro trasversale che si aggrappa all’idea (improbabile, non più impossibile) d’una rivincita referendaria.
E questo senza contare la destra unionista nordirlandese del Dup, vitale alleato per la tenuta del governo in parlamento, allarmata da un testo d’intesa – ben visto a Dublino – che lascia aperta la porta per il futuro a un legame fra Irlanda del Nord e Ue “più profondo” rispetto a quello del resto del Regno.
La premier sembra poter contare se non altro sullo zoccolo duro centrista del gruppo conservatore ai Comuni, fra 200 e 260 deputati, stando a un pallottoliere sempre più oscillante: sufficienti a proteggerne la leadership in caso di formalizzazione della mozione di sfiducia (ne bastano 158); non certo a garantire la maggioranza parlamentare quando e se la bozza d’intesa arriverà in aula per il prendere o lasciare.