Una multinazionale tedesca chiude un suo stabilimento francese. 1100 dipendenti licenziati in tronco. Una massa unita di operai, e di qualche timido impiegato, sciopera ad oltranza. Barricate, occupazione della fabbrica, adunate in piazza. Non è uno dei tanti, infiniti servizi giornalistici da cronaca industriale di oggi, ma la trama di In Guerra, il nuovo film di Stephane Brizé. La perdita del lavoro, l’assenza del lavoro, la lotta determinata, furiosa, impossibile per riconquistarlo.
La forsennata macchina da presa a mano di Brizé rinchiude la trattativa prolungata ed esasperata del gruppo di operai capitanati da un’inarrestabile Laurent Amédéo (Vincent Lindon) tra le stanze del lavoro e del potere, davanti alle telecamere dei servizi tv, alla reception delle multinazionale in attesa che il presidente “mr. Hauser” scenda e si confronti vanamente con loro. Come si diceva, l’occhio della cinecamera sembra affiancarsi a quello di tanti nuovi (e vecchi) media. Prima Laurent e i suoi compagni sono primo piano e sfondo di numerosi servizi giornalistici dans la rue, poi diventano con sequenzialmente, senza stacchi di montaggio, chiusa la porta del tavolo di confronto, birilli esausti di una lotta classista che travolge ogni benaugurante auspicio di egualitarismo socio-economico davanti all’obiettivo sfumato di Brizé. Coperti in parte da spalle e mezzi busti fuori fuoco, gli operai che protestano (tanti gli attori non professionisti in scena) continuano lo scontro serrato dopo che fotografi e operatori dei media sono usciti dagli uffici dove la trattativa sbatte contro la sordità del capitale. Rimane, appunto, la regia di Brizé, lo sguardo che taglia e cuce la protesta, che registra le urla e gli improperi verso i padroni del vapore, che segue gli scontri comunque all’interno di una mai definitiva unità tra scioperanti.
Se la multinazionale tedesca chiude l’anno con degli utili in borsa perché deve licenziare più di mille dipendenti? Così In Guerra diventa una rincorsa senza fiato contro la fine del tempo utile per la sopravvivenza. Un tentativo cinematografico di ridare dignità agli individui più vulnerabili di fronte allo tsunami dell’industrializzazione globalizzata contemporanea. Un film partigiano e combattente fuori da ogni misura di un paludato perbenismo. “Nel post 1945, dopo decenni di naturale contrattazione tra capitale e lavoro, con l’avvento dell’ultraliberismo negli Stati Uniti i politici hanno dato le chiavi del potere in mano alle banche e alle borse”, ha spiegato il regista Brizé al fattoquotidiano.it. “Cosa abbiamo ottenuto in cambio non è chiaro, ma in tantissimi paesi sono state votate leggi una dopo l’altra tutte a favore dei profitti della grande finanza; leggi che negli ultimi trenta anni sono state votate da tutti i politici, sia di destra che di sinistra. Per questo le persone che vogliono difendere il loro lavoro non hanno più gli strumenti necessari per salvaguardarlo”.
A seguire In Guerra, infatti, la lotta degli operai assume i contorni di un agire presente e futuro tragicamente solitario e inascoltato. Tanto che nemmeno il rappresentante del governo francese riesce a far rispettare un minimo di coerenza e di onestà alla controparte industriale del film, ovviamente rapace, nebulosa, sfuggente. “Il divario tra la fetta piccolissima di ricchissimi e quello di una enorme quantità di poveri e sempre più grande”, aggiunge il solito, monumentale, totalizzante Vincent Lindon, che dona forza d’animo e cuore al suo Laurent. “Può sembrare un discorso socialista ma è semplicemente un discorso sociale, non è un’idea comunista ma la normalità del buon senso: la diseguaglianza nella ripartizione della ricchezza deve essere meno dilatata di quella attuale; la differenza tra i salari più alti e quelli più bassi deve diminuire. Questa sperequazione non può continuare a durare. Non dico che i ricchi devono diventare poveri, ma che chi ha poco deve avere la possibilità di un minimo per vivere dignitosamente”. In Guerra è distribuito da Academy Two dal 15 novembre.