“A noi italiani rimproverano sempre di essere mammoni: ma con mille euro al mese, come fai ad andare a vivere da solo?”. Silvia Ronchi da poco più due anni vive a Basilea, al confine svizzero tra Francia e Germania. I luoghi comuni sugli italiani la fanno arrabbiare. Lei, con un assegno di ricerca di 5mila franchi al mese, a 26 anni ha potuto ottenere l’indipendenza economica che a tanti suoi colleghi in Italia non è concessa. La vita in Svizzera costa decisamente di più, ma parliamo comunque di uno stipendio quadruplo rispetto media dei suoi connazionali. “Un ricercatore in Italia viene pagato poco più di mille euro al mese, o anche meno. Se devi pagarne 600 o 700 di affitto, come fai a mantenerti da solo?”. Il suo stipendio le ha permesso di viaggiare, ma è l’indipendenza la soddisfazione più grande: “È molto bello non essere mantenuta dai genitori, senti che la tua vita ti appartiene e puoi gestirla. Puoi scegliere cosa fare e come. In Italia sarebbe stato impossibile durante un dottorato”.
Qui, se sei bravo ce la fai, in Italia non è detto. Ci sono crisi economica e un sistema viziato dalle raccomandazioni
A Basilea è arrivata nel 2016 per scrivere la tesi: “Avevo voglia di fare un’esperienza all’estero e il Federal Institute of Technology era la migliore opzione possibile”. Città che vanta, oltre alla più antica università della Svizzera, anche un importante distretto industriale del settore chimico-farmaceutico. L’Eth l’ha sostenuta con una borsa di studio, e poi le ha offerto di proseguire con un dottorato di ricerca in Neuroscienze ed Elettrofisiologia. A gennaio, Silvia è tornata a Roma per discutere la tesi. A febbraio, ha iniziato la sua nuova vita a Basilea. Il suo è un team di ricerca internazionale, con scienziati provenienti da tutto il mondo: “Conoscere persone con bagagli culturali diversi è una fortuna, soprattutto sul lavoro, si impara molto dagli altri. Il difetto dell’università italiana è di essere troppo chiusa: se si aprisse agli altri Paesi sarebbe un ambiente molto più ricco, culturalmente ed economicamente”. Su 40 ricercatori che lavorano al suo progetto, dieci sono italiani, cosa che all’inizio la riempiva d’orgoglio: “Finché un mio collega non mi ha spiegato che se tanti nostri connazionali lavorano qui non significa che siano più intelligenti degli altri, ma che da noi non c’è lavoro”. Il suo collega è uno dei tanti ricercatori che, arrivati in Svizzera per completare gli studi, non se ne sono mai andati. “Tutti vorrebbero tornare in Italia – spiega Silvia – ma sono preoccupati di non trovare lavoro”.
Anche in Svizzera la competizione è alta, ma ci sono più opportunità: spesso ci pensano le grandi aziende farmaceutiche ad assumere chimici, fisici e ingegneri che non riescono ad entrare nel mondo accademico. “Qui, se sei bravo ce la fai, in Italia non è detto: tra la crisi economica e un sistema viziato dalle raccomandazioni, chi è fortunato diventa professore a 50 anni”. Secondo l’ultimo censimento del 2016 dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, sono oltre 600mila i cittadini italiani residenti in Svizzera. La terza comunità di expat più numerosa, dopo quella argentina e quella tedesca. Ad attirare braccia (e cervelli) non è solo una maggiore disponibilità di lavoro, ma la sua qualità: “I diritti dei lavoratori vengono veramente tutelati: il part-time è flessibile, i congedi parentali funzionano e gli straordinari non pagati semplicemente non esistono”. E poi, ovviamente, c’è una migliore qualità della vita: “Quando esci dal lavoro ti godi veramente il tempo libero. Nessuno lavora di domenica: vanno tutti al parco con i bambini, stanno con la famiglia o fanno sport“.
I diritti dei lavoratori vengono veramente tutelati: il part-time è flessibile
A Basilea Silvia è felice, e l’entusiasmo tiene lontana la nostalgia del Belpaese. Anche perché, dice sorridendo, per ora si trova “dietro l’angolo, anche se i treni costano moltissimo”. Al tempo stesso è consapevole che l’ambiente universitario, così aperto e multiculturale, è un luogo privilegiato: fuori non è sempre così, molti italiani hanno denunciato situazioni di discriminazione. “La Svizzera è una bolla, chi porta lavoro e porta soldi è sempre il benvenuto”, conclude pragmaticamente. Ripete spesso di non essersi sentita costretta a partire, ha colto al volo un’opportunità che le si era presentata. Ma quel che ha trovato nell’università elvetica – un ambiente aperto e stimolante, il rispetto per i lavoratori e uno stipendio che le permette di essere indipendente – le rende molto difficile pensare di tornare. “Io amo il mio Paese: ma quando cominci a costruirti una vita all’estero, come fai a tornare?”.