“Uscire senza accordo è meglio che farlo con un cattivo accordo”. Theresa May queste parole le ha ripetute fino all’ultimo, anche a fine settembre durante un suo discorso da Downing Street, quando le trattative sulla Brexit sembravano essersi irrimediabilmente impantanate. Sono passati quasi due mesi e la bozza di accordo tra Unione europea e governo britannico, invece, è realtà. Ma tradisce molte delle promesse che la premier britannica aveva fatto da luglio 2016, quando è entrata in carica e ha cominciato a condurre i negoziati. Fuori dal mercato unico, nessuna unione doganale, nessuna adesione “parziale” all’Ue, “l’autorità delle leggi europee sulla Gran Bretagna finirà per sempre” e stop alla libera circolazione delle persone. Di queste dichiarazioni d’intenti, il primo ministro ha ottenuto solo l’ultima e, in compenso, il conto da pagare all’Ue è salatissimo.
L’aspetto più delicato e discusso è sicuramente quello riguardante la situazione dell’Irlanda del Nord perché ad essa si collegano esigenze di tipo commerciale, esigenze interne al Regno Unito e altre condizionate dal rispetto dell’accordo del Venerdì Santo che garantisce un confine aperto tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord.
May, pressata in patria da Tory e unionisti nordirlandesi, aveva dichiarato che l’unità della Gran Bretagna non era in discussione, escludendo contemporaneamente la possibilità di tornare a confini fisici tra la parte britannica e quella europea dell’Irlanda. La bozza di accordo, che dovrà adesso ottenere l’ok del Parlamento di Londra, racconta però una realtà diversa. L’Irlanda del Nord manterrà, come previsto dall’accordo del Venerdì Santo del 1998, le proprie frontiere sud aperte, ma, per questo, dovrà rimanere seppur parzialmente all’interno del mercato unico europeo rispettandone le leggi, mentre per il resto del Regno è prevista l’unione doganale con controlli delle merci che si sposteranno nel mare d’Irlanda, spezzando in due il Regno. Il problema, che le opposizioni le rinfacciano, è che il primo ministro aveva escluso la propria permanenza nel mercato unico e in un’unione doganale con l’Ue.
La bozza prevede che i controlli tra le merci in transito dal Regno Unito verso l’Irlanda del Nord siano basati su “processi decentralizzati”, tranne che per animali e derivati, per i quali i controlli saranno più stringenti. In altre parole, si dovrà compilare una dichiarazione doganale online che definisca le caratteristiche delle merci e, in caso di beni industriali, sul container sarà presente un codice a barre scansionabile durante il tragitto o al porto d’arrivo. I controlli non avverranno su tutte le merci, ma solo su alcune, in base ai rischi relativi al carico trasportato e alle dichiarazioni. Non saranno, assicurano da Bruxelles, controlli a campione casuali.
Londra spera in un accordo definitivo da raggiungere entro il 1° luglio 2020, sei mesi prima del periodo di transizione. Se questo non dovesse accadere, le possibilità sarebbero due: prolungare fino a data da destinarsi il periodo di transizione in “backstop”, ossia la permanenza dell’Irlanda del Nord nel mercato unico con la Gran Bretagna inserita nell’unione doganale con controlli tra le due parti nel Mare d’Irlanda, ipotesi che gli ultraconservatori britannici non hanno mai voluto prendere in considerazione, oppure rischiare di tornare a un hard border tra Irlanda e Irlanda del Nord, che violerebbe gli accordi del 1998 e farebbe infuriare gli unionisti nordirlandesi che sostengono in Parlamento la May.
Un accordo come quello trovato al tavolo tra Bruxelles e governo di Londra non piace sia agli ultraconservatori, che parlano di un rischio per l’Unione della Gran Bretagna, che agli unionisti nordirlandesi, preoccupati dal ripristino dei confini ma che nemmeno vogliono un’Irlanda del Nord con uno status diverso rispetto al resto del Regno e maggiormente legata all’Ue, come sarà per i prossimi anni in caso di ratifica della bozza di accordo.
“Si viene a creare – spiega Antonio Villafranca, capo ricercatore di Ispi per l’area europea – una situazione in cui si può parlare di un’unione doganale simile a quella che l’Ue ha con la Turchia, in cui, come richiesto dal Regno Unito, vengano meno le quattro libertà del mercato unico (libera circolazione delle merci, dei servizi, delle persone e dei capitali, ndr). Ma per permettere ciò, l’Unione europea ha imposto vincoli decisamente stringenti”.
Ed è fra questi vincoli che si nascondono le altre promesse infrante da Theresa May. La prima, quella di una completa sovranità del Regno Unito: “Per ottenere questo tipo di accordo – continua Villafranca – in materia di concorrenza e aiuti di Stato il Regno Unito dovrà mantenere l’attuale legislazione maturata in base agli accordi con Bruxelles, con regole ancora più stringenti per l’Irlanda del Nord, e dovrà adeguarsi alle future modifiche a tale legislazione, pur non prendendo più parte alle decisioni dell’Unione europea”. Inoltre, la Gran Bretagna dovrà rispettare anche la cosiddetta “clausola di non regressione” in materia di norme sociali, ambientali e del lavoro, “così l’Ue potrà essere sicura che alle sue porte non vi sia un Paese che produce avvantaggiandosi grazie a normative meno stringenti”.
Nel caso in cui questo accordo non venisse ratificato, la prospettiva più probabile sarebbe quella di una hard Brexit, un’uscita senza accordi: “I britannici – continua l’analista – sanno bene, però, quanto questa li penalizzerebbe. Potrebbe veramente metterli in ginocchio”.
Tra le varie clausole, un’altra viola le promesse fatte dalla premier britannica negli ultimi anni: quella relativa al ruolo svolto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. Mentre i Brexiteer chiedevano, come promesso loro anche dalla May, totale indipendenza rispetto alla giurisdizione Ue, la bozza da 585 pagine prevede che la Corte mantenga la competenza fino alla fine del periodo di transizione. Si creerà un panel di arbitri che risolveranno i conflitti e, nel caso di disaccordo su questioni d’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte resta competente.