Dovrebbe denunciare il fondatore, l’uomo – che come dice lui – gli ha dato la voglia, il coraggio e le idee. E dovrebbe farlo per dare sostanza a quello che sostiene da tempo: lui è il suo partito con quella brutta storia dei 49 milioni di euro di fondi pubblici scomparsi non hanno niente a che fare. A suo tempo, però, ha assicurato che non l’avrebbe fatto, mettendoci pure la firma: da parte della sua Lega “non ci sarebbe stata alcuna interferenza” nei procedimenti aperti “nei confronti di alcuno dei membri della famiglia Bossi“. C’è scritto proprio così: famiglia Bossi, the family, come il nome dell’inchiesta che ha fatto nascere tutta questa storia. Una vicenda che non è solo giudiziaria: è anche e soprattutto politica.
Un parricidio in due settimane – Quello che adesso Matteo Salvini è chiamato a commettere è una sorta di parricidio. E in meno di due settimane, tredici giorni per l’esattezza. Tanto rimane alla Lega per presentare una querela nei confronti di Umberto Bossi e Francesco Belsito. In caso contrario, il processo d’appello in corso a Milano per appropriazione indebita si estinguerà. Nonostante le condanne emesse in primo grado, tutta la vicenda andrà in fumo. Abbiamo scherzato. Lo prevede la riforma del processo penale ideata dal governo di Matteo Renzi e introdotta da quello di Paolo Gentiloni il 21 marzo, due giorni prima dell’insediamento del nuovo Parlamento. In precedenza, infatti, per quel tipo di reato si procedeva d’ufficio. Oggi non è più così: ci vuole una querela della parte offesa. L’hanno ribattezzata “legge ad cognatum“, perché potrebbe salvare il cognato di Matteo Renzi, Andrea Conticini (sposato con sua sorella Matilde) e i suoi fratelli Alessandro e Luca, che a Firenze sono accusati di aver usato per fini personali 6,6 milioni di dollari raccolti per finanziare attività benefiche in Africa.
Legge ad Carroccium? – La “legge ad cognatum”, però, potrebbe trasformarsi presto in “legge ad Carroccium“. Sarà Salvini a deciderlo. Dopo la notifica dello scorso 31 agosto, il ministro dell’Interno ha tempo fino al 30 novembre per presentare o meno denuncia contro Bossi e Belsito, come ha fatto a Genova nel processo sulla truffa allo Stato che ha portato alla decisione sulla confisca degli ormai famosi 49 milioni di euro e la cui sentenza d’appello è prevista martedì 20 novembre. Il processo genovese è gemello di quello in corso a Milano, dove il 27 luglio del 2017 il tribunale ha condannato i tre imputati: 2 anni e 3 mesi per Bossi, 1 anno e 6 mesi per suo figlio Renzo detto “il Trota“, 2 anni e 6 mesi per Belsito. L’inchiesta da cui è nato si chiamava the Family, come il nome della cartella in cui l’ex tesoriere custodiva le spese della famiglia del fondatore del Carroccio. Adesso, però, se dalla Lega non dovesse arrivare alcuna denuncia, il sostituto procuratore generale Maria Pia Gualtieri sarà costretta a chiedere l’estinzione del reato. La prossima udienza è prevista il 14 gennaio del 2019, ma al palazzo di Giustizia di Milano fino a venerdì 16 novembre non era arrivato nulla. Tra i corridoi di via Freguglia c’è molto scetticismo sulla possibilità che da via Bellerio possa essere inviato un atto del genere. Il bello è che anche se la Lega volesse presentare denuncia solo nei confronti di Belsito, “salvando” i Bossi, il giudizio andrebbe avanti per tutti gli imputati, concorrenti nello stesso reato per attrazione.
La giudiziaria incrocia la politica – Questa, però, come detto non è solo una questione giudiziaria. È soprattutto una vicenda politica: ha attraversato e continua ad attraversare le lotte di potere intestine del Carroccio, prima destabilizzato dall’estromissione di Bossi, poi dilaniato dalla scalata di Roberto Maroni, quindi ricostruito dall’avvento di Salvini. È per questo motivo che in piena estate il responsabile del Viminale si era presentato al tribunale di Genova per querelare Berlsito. Nel capoluogo ligure, però, a essere accusato di appropriazione indebita è solo l’ex segretario amministrativo, condannato in primo grado a 4 anni e 10 mesi perché ritenuto colpevole di aver preso dai conti del partito 5,7 milioni di euro che sarebbero stati spostati tra Cipro e la Tanzania. In Liguria, invece, Bossi è imputato solo per truffa aggravata: il destino del senatur, in pratica, era segnato mentre quello di Belsito dipendeva da una denuncia di Salvini. Che è arrivata a luglio. Un modo per dare seguito alle parole che il ministro ripete da mesi: lui con la Lega dei 49 milioni non c’entra nulla.
La scrittura privata e la pace – Quella, però, non era solo la Lega di Belsito: era soprattutto la Lega di Bossi. Per i giudici di Milano il senatur era “consapevole concorrente, se non addirittura istigatore, delle condotte di appropriazione del denaro” del Carroccio , ma proveniente “dalle casse dello Stato”, “per coprire spese di esclusivo interesse personale” suo e della sua “famiglia”. Insomma una querela di Salvini, questa volta, non metterebbe nei guai il solo Belsito ma direttamente l’uomo che ha inventato il partito di Alberto da Giussano. Con il quale il vicepremier aveva regolato i rapporti il 26 febbraio del 2014. Era la famosa scrittura privata siglata da Salvini, dall’allora segretario amministrativo Stefano Stefani, da Bossi e dallo storico avvocato del senatur, Matteo Brigandì. In quattro pagine firmate il 26 febbraio del 2014, si firmava la pace tra vecchia e nuova Lega: Brigandì rinunciava a rivendicare una parcella milionaria per aver difeso il partito dal 2000 al 2013 e in cambio l’attuale segretario assicurava a Bossi una “quota” pari al 20% delle candidature in posizione di probabile elezione, più uno stipendio da presidente di partito pari a 450mila euro l’anno come “agibilità politica“. Ma di particolare attualità è soprattutto il punto 7 di quella scrittura privata: “Il procedimento penale pendente avanti il tribunale di Milano ove Bossi è difeso da Brigandì, non avrà, da questo momento, alcuna interferenza da parte della Lega che non intende proporre azione risarcitoria nei confronti di alcuno dei membri della famiglia Bossi”. Con una querela di parte, Salvini interferirebbe senza dubbio nel procedimento milanese.
Il processo a Brigandì – Quell’accordo, però, negli anni è stato in gran parte disatteso. Di recente a ricordare la sua esistenza è stato lo stesso Brigandì, a processo a Milano per patrocinio infedele e autoriciclaggio. Il legale – ed ex parlamentare del Sole delle Alpi – ha ricordato che in quella scrittura privata Salvini aveva messo la sua firma, tra le altre cose, anche sotto a questa frase: “La Lega si impegna ad affermare, a mera richiesta, in ogni sede la correttezza del comportamento di Brigandì dal punto di vista morale e deontologico”. Così non è stato visto che il Carroccio è parte civile nel processo allo storico difensore di Bossi. “Quella sottoscrizione è ben antecedente alle accuse emerse dall’inchiesta”, ha detto l’avvocato Lorenzo Bertacco, che rappresenta la Lega e fa parte dello studio legale di Domenico Aiello, da sempre legale di Maroni. Anche Aiello è citato nell’accordo sottoscritto da Salvini e Bossi. “La Lega non darà ulteriori mandati all’avvocato Aiello”, si legge al punto 6 del documento: all’epoca, infatti, i rapporti tra l’avvocato di origine calabrese e via Bellerio erano addirittura regolati da un contratto. Che evidentemente non piaceva né a Bossi e neanche a Brigandì: erano disposti a negoziare la pace con Salvini a patto di ottenere – tra le altre cose – il “licenziamento” del legale e consigliere di Maroni.
L’intercettazione: “Non firmare. Avrai guai” – È lo stesso Aiello che il 24 febbraio del 2014, cioè due giorni prima che quella scrittura privata venisse firmata, telefona all’allora tesoriere Stefani e lo mette in guardia. Il legale è intercettato e le sue conversazioni sono state pubblicate da Marco Lillo nel volume Il potere dei segreti. “Tu – dice – gli stai firmando che la Lega non si costituisce parte civile contro Belsito”. “Sì e ti spiego perché, perché lui (Brigandì ndr) questa vuol trattarla come merce di scambio affinché Belsito non dica che ha dato i soldi a…su ordine di Bossi perché se no dovevamo costituirci anche contro Bossi e allora”, risponde Stefani. “Non è vero questo, non è vero … guarda che ti assumi una responsabilità personale molto importante se fai una cosa del genere. Riflettici, eh”, replica l’avvocato di Maroni. “Non sono solo io!”, dice il tesoriere. “Ma questa clausola qui – continua Aiello – io ti do un consiglio da fratello, non la firmare perché questa clausola ti porterà solo dei guai a te e a chiunque la firma”. “Chiamo anche Giorgetti e glielo dico. Perché è una cosa troppo delicata”. Non si sa se Stefani abbia davvero chiamato l’attuale sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Aiello di sicuro chiama Maroni. “Ma chi la stava firmando: anche Salvini?”, chiede l’ex governatore della Lombardia. “Si – risponde l’avvocato – anche Salvini e poi Stefani me l’ha mandata e mi ha detto: io se tu non mi dai l’ok non firmo”. “Ok – spiega Maroni – ma Salvini non vuole rotture di coglioni, dice chiudiamo in fretta, però non esiste al mondo, tolgano il mio nome e facciano quello che vogliono”. Quella scrittura privata sarà firmata 48 ore dopo. Nella versione in possesso del fattoquotidiano.it il nome di Maroni non c’è.
Posti in lista, legali, processi e querele – Nel frattempo, però, tutto è cambiato. Lo stesso Brigandì non difende più Bossi: ha smesso di farlo all’inizio del 2018 dopo quasi vent’anni. Erano i mesi in cui sui giornali filtrava la concreta possibilità di una mancata ricandidatura di Bossi da parte di Carroccio. “Se ricandido Bossi? Chi è d’accordo con la battaglia del movimento, ovviamente, avrà spazio nel movimento. Quindi, chiedetelo a lui. Se continua a dire che la Lega sbaglia, che Salvini è un cretino, che bisogna fare la secessione, che bisogna fregarsene di quello che succede a Roma, a Napoli, a Taranto, a Palermo o ai terremotati di Abruzzo, io non sono d’accordo”, minacciava Salvini nel dicembre del 2017. Il senatur – raccontavano i retroscena – sarebbe stato candidato nelle liste di Forza Italia dall’amico Silvio Berlusconi , che a Salvini lo aveva indicato come una risorsa. Alla fine, invece, il nuovo numero uno del Carroccio ha deciso di “salvare” il suo fondatore. “Perché nella vita come in politica il rispetto e la riconoscenza valgono più della convenienza elettorale”, annunciava a fine gennaio. Quindici giorni dopo ecco che via Bellerio si costituiva parte civile contro Brigandì, nel frattempo rinviato a giudizio sempre a Milano ed estromesso da pochissimo dal collegio difensivo di Bossi. Quindi – alla prima Pontida da vicepresidente del consiglio – Salvini aveva addirittura ringraziato pubblicamente il senatur: “Non finirò mai di ringraziare chi mi ha dato la voglia, il coraggio, le idee per cominciare che non ha altro nome che Umberto Bossi“. Contro quell’uomo, chi gli ha dato la voglia, il coraggio, le idee, adesso Salvini dovrà presentare una denuncia. Ha tredici giorni di tempo.