Di questo professore colto, mite e rivoluzionario (non sono aggettivi contraddittori, piuttosto ne confinano faticosamente una certa armonia) ammiro la genialità mista a innocenza. Un’innocenza che non arretra nemmeno dinanzi all’autorevolezza dei suoi studi, del rigore, la disciplina dell’accademico: uno dei massimi studiosi di Leonardo Sciascia. Del suo candore anacronistico ho individuato i prodromi – o le inequivocabili conferme – in molti suoi testi (finanche nei suoi post provocatori e accecati dal nitore che ingenerano opinioni, sui social), non ultimo l’articolato e sorprendente saggio L’idea che uccide, edizioni Nerosubianco, uscito di recente. Ed è il viaggio dentro le pulsioni dei romanzieri dell’anarchia, che mi piacerebbe chiamare irreprensibili imperdonabili. Utopici combattenti persino della pietà in terra.

Lui è Antonio Di Grado, critico scrittore, come lo definì in un suo volume Claude Ambroise, in un unico ruolo convergente. Critico e scrittore siciliano, veemente, appassionato nel difendere un’idea capace di rompere gli argini, sovvertire. La predilezione verso il mondo anarchico, l’inclinazione segreta o quasi sottaciuta, riguarda moltissimi scrittori a cavallo tra Ottocento e Novecento. Di Grado ne esegue una circostanziata perlustrazione: De Roberto, Oriani, Valera, De Amicis, Turgenev, Dostoevskij, Bloy, Conrad, Orwell. E così via.

“Perché questo saggio?” gli chiedo, con il sospetto che l’implicita colpa storica sia l’omissione o la sottodimensione di un fenomeno politico e morale di un’entità non ancora riconosciuta del tutto, può darsi di una suggestione tuttora insondabile. “Da anni inseguo questo spettro che turbò la borghesia ottocentesca e intrigò tanti scrittori, dai russi a Zola, dai nostri De Roberto, Oriani, Valera, De Amicis, Bacchelli, Ungaretti, Vittorini a Conrad, Chesterton, Orwell, Camus e tanti altri” spiega Di Grado “Un misto, in loro, di timore e fascinazione per quell’esigente chimera, per quel rigoroso monito al dissenso e alla disobbedienza, per quel sogno di fraternità. Ne è venuto fuori questo libretto in cui, oltre agli astratti furori di quei grandi, credo che venga fuori anche la mia insofferenza per il mondo com’è e per la compassata scrittura accademica, che ho sempre cercato di trasgredire”.

Aggiungo che l’innocenza di Antonio Di Grado non è così lontana dagli altri citati sopra. E lui replica: “Anarchico? A modo mio, così come anarchico amava definirsi Simenon. Penso a un furore libertario condito di mitezza e di ironia. E perché no di misericordia: penso al cristianesimo anarchico di un Tolstoj o di Simone Weil, di cui scrissi altrove in occasione d’una mia lettura piuttosto eterodossa dei Vangeli. Penso al dovere del dubbio e della demistificazione, tanto più urgente nei nostri tempi grevi, perciò a scrittori-intellettuali come Sciascia e Pasolini, anche loro sfiorati in questo mio libro, e che sarebbe forzato arruolare sotto i vessilli dell’anarchia ma che svettano ancora come emblemi di libero pensiero, affrancato da schieramenti e ideologie, sempre ostile e ribelle al potere e pronto a smascherarne le imposture. Ed è questo che mi piace chiamare, oggi, anarchia”.

In quarta di copertina leggiamo in fondo quel che potremmo definire il testamento sentimentale di ogni visionario: “Il miraggio di un paradiso in terra o di una catastrofe giustiziera, di un evangelo laico o di una praticabile utopia“.

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