Più di 50mila tonnellate di rifiuti anche tossici e pericolosi, ammassati da 14 anni in due capannoni fatiscenti, a ridosso delle case e vicino a un canale. Sembra lo scenario di uno degli angoli più degradati della Terra dei fuochi e invece il sito della ex C&C si trova nella ricca provincia di Padova, tra i comuni di Pernumia, Battaglia Terme e Due Carrare. Nei primi anni Duemila è stato il fulcro di un lucroso traffico illecito di monnezza finita sepolta in opere pubbliche e private, compresa la linea ferroviaria dell’Alta velocità. Ora, mentre i condannati in primo grado si sono visti condonare le pene o hanno beneficiato della prescrizione, i cittadini aspettano invano la bonifica, ammorbati dall’odore acre che a distanza di anni i rifiuti continuano a sprigionare e preoccupati per le conseguenze sulla salute e sull’ambiente. Qui, ci sono stati in questi anni un inizio di incendio sedato in tempo e una tromba d’aria a 100 metri di distanza, mentre il vicino canale, le cui acque arrivano al fiume Brenta e da lì al mare, ha rischiato più volte di esondare. Se non ci sono state conseguenze drammatiche si deve soprattutto alla fortuna. Meno alle istituzioni, che tra lentezze e mancanza di risorse sono riuscite in questi anni ad avviare solo i primi interventi. Presto grazie a fondi regionali 4500 tonnellate di monnezza dovrebbero essere portate via dal capannone. Ma le altre 45mila rimarranno.
Monnezza sepolta nelle opere pubbliche
La storia comincia nel 2002, quando Fabrizio Cappelletto mette in piedi la C&C, un’attività per produrre conglomerati cementizi dai rifiuti in due stabilimenti, uno nel Padovano e l’altro in provincia di Venezia. L’azienda però, come riveleranno le indagini del Corpo forestale di Treviso con l’inchiesta “Il mercante di rifiuti”, è il centro di un traffico illecito di monnezza. Nello stabilimento, infatti, secondo gli investigatori arrivano rifiuti di ogni tipo, compresi scarti pericolosi e contaminati da alti livelli di idrocarburi e metalli pesanti. Nonostante siano inadatti a finire nei sottofondi stradali, vengono impastati con sabbia e cemento in miscele puzzolenti e inviati in cantiere, mettendo in piedi, scrive il giudice nella sentenza di primo grado indulgendo a una citazione letteraria, un “enorme e immondo commercio di anime morte”. Così, con l’aiuto di complici e ditte conniventi pagate per ricevere l’impasto, il “Conglogem” inventato dall’azienda finisce sotto la linea dell’Alta Velocità Padova-Venezia, e viene usato nella costruzione di uno svincolo stradale a Padova, così come in altri cantieri pubblici e privati in Veneto, Emilia Romagna e Lazio. “Il composto era così tossico da aver inquinato l’ambiente nei cantieri dove è stato usato. In teoria i siti noti sono già stati bonificati, ma di fatto è impossibile sapere tutti i luoghi dove è stato usato, perché nessuno degli imputati ha mai fatto dichiarazioni in merito”, spiega a ilfattoquotidiano.it Francesco Miazzi del comitato Lasciateci respirare, che insieme all’associazione la Vespa e al comitato Sos C&C porta avanti la protesta da anni.
“Puzza terribile, moriremo tutti con un cancro”
Le indagini sulla C&C cominciano nel 2004, dopo le proteste dei cittadini. “Una puzza terribile, c’è ammoniaca. Moriremo tutti con un cancro da qualche parte”, dice un’impiegata dell’azienda a Cappelletto in una telefonata intercettata dagli inquirenti nello stesso anno. Odore che, secondo il giudice del tribunale di Venezia, non poteva non sentire chi accettava il Conglogem in cantiere e che tutt’oggi, nelle giornate di vento, la gente continua ad avvertire intorno alla ex fabbrica, poi messa sotto sequestro nel 2005. A preoccupare non è solo la puzza in sé: “I due capannoni hanno le pareti spanciate, quando piove ci sono infiltrazioni d’acqua e si formano pozzanghere di percolato, con il rischio concreto di diffusione degli inquinanti nell’ambiente”, dice Miazzi. “Dentro i cumuli arrivano anche a 7 metri di altezza e sono addossati ai pilastri in metallo e alle pareti in lamiera, mettendo a rischio la struttura visto che potrebbero risultare corrosivi”, aggiunge il sindaco di Battaglia Terme Massimo Momolo. “Se viene un’alluvione, una bufera o tromba d’aria è un problema. Dal canale vicino al sito l’acqua poi va a finire in laguna”, spiega il collega di Pernumia, Luciano Simonetto.
Per i rifiuti chi paga? Le casse pubbliche
I lavori per ripristinare l’area, invece, sono partiti molto tempo dopo: nel 2009 il sito è stato incluso tra quelli di interesse regionale da bonificare e nel 2010, cinque anni dopo il sequestro dei capannoni, sono state rimosse le 3.500 tonnellate di rifiuti anche pericolosi ammassati all’esterno. Le spese, si legge nella relazione sul Veneto della commissione bicamerale Ecomafie del 2016, sono state coperte “solo in parte dalle fideiussioni che la società C&C, per legge, avrebbe dovuto prestare a favore dell’amministrazione provinciale per poter operare”. L’azienda era già stata dichiarata fallita nel 2005, mentre anche la Cedro, proprietaria dei capannoni dove operava la C&C è uscita di scena grazie a una sentenza del Tar secondo il quale – al contrario di ciò che sostenevano Comune e Provincia – non c’è stata responsabilità della Cedro per abbandono dei rifiuti e inquinamento.
Presto nuovi lavori, ma nessun piano per la bonifica
Nel frattempo, nel 2009, gli 11 imputati sono stati condannati in primo grado complessivamente a 40 anni di reclusione, ma a causa della prescrizione intervenuta nel 2012 il processo è sfociato in un nulla di fatto. Gli altri nove imputati, tra cui Cappelletto, hanno patteggiato: come si legge nella relazione della commissione Ecomafie, per tutti la pena è stata condonata. Oggi, mentre alcuni dei personaggi coinvolti nell’inchiesta invocano il diritto all’oblio chiedendo di cancellare il proprio nome da alcuni siti web, la collettività si trova a portare sulle spalle tutto il peso delle oltre 50mila tonnellate di rifiuti rimaste nella ex C&C. Tra poco dovrebbero iniziare i lavori, finanziati dalla Regione con 1,5 milioni di euro, per rimuovere 4500 tonnellate. A preoccupare è però quello che rimarrà: una montagna da circa 44mila tonnellate di monnezza contaminata e un’area da bonificare, con costi stimati per oltre 10 milioni di euro e nessun segnale chiaro di nuove risorse stanziate dal bilancio regionale.
La Regione non risponde a sindaci e consiglieri
“Nei tre Comuni”, spiega Momolo, “a fine ottobre abbiamo approvato all’unanimità tre mozioni per chiedere alla Regione un piano di intervento pluriennale da 2 milioni di euro all’anno”. Pochi giorni dopo il consiglio regionale del Veneto ha approvato all’unanimità una mozione presentata dal consigliere di Liberi e Uguali Piero Ruzzante, che impegna la giunta a elaborare un piano per la completa bonifica, finanziandolo nel 2019 con 2 milioni di euro delle risorse previste dalla legge speciale per Venezia. “In sede di discussione di bilancio, tra poche settimane, verificheremo che tale impegno venga mantenuto. Dopo quindici anni le 50mila tonnellate di rifiuti tossici sono ancora lì, è inaccettabile che non ci sia ancora un piano per la bonifica del sito. La giunta Zaia è avvisata: la salute dei cittadini non può più aspettare”, ha detto Ruzzante. Alla domanda se intenda stanziare le risorse chieste dai tre sindaci e dai consiglieri, la Regione non risponde a ilfatto.it. Da Venezia si limitano a ricordare la mozione e spiegare che “potrebbero essere necessari dagli 11 ai 15 milioni di euro per smaltire il tutto”. Il sindaco Simonetto si dice fiducioso e attacca i comitati dei cittadini, che pure hanno contribuito a scrivere le tre mozioni comunali: “Sto cercando di fare quello che è possibile, ma non posso chiedere alla Regione di darmi domattina un altro milione. Tra comitati e rompiscatole ce ne sono dappertutto, i soldi però sono riuscito a portarli a casa io. Tutti questi soloni sono andati anche a Bruxelles ma non ho visto il risultato. Io con la Regione del Veneto ho un buon rapporto, sono sicuro che mi daranno risposte”.