Il “populismo di sinistra” è vivo e lotta insieme a noi. E’ in libreria “Per un populismo di sinistra” (Laterza), scritto dalla filosofa belga Chantal Mouffe (di cui il fattoquotidiano.it vi mostra alcune pagine in esclusiva). Breve e lucido pamphlet che prova ad annodare i fili di un discorso politico democratico, serio e concreto, di fronte allo spauracchio concettuale sventolato ai quattro venti del pericolo “populista”. Mouffe insegna politica e relazioni internazionali all’università di Westminster ed è anche autrice, assieme a Ernesto Laclau, del volume Egemonia e strategia socialista (1985), qui ripreso in parecchi passaggi, testo fondante per alcuni dei fondatori del movimento politico Podemos in Spagna e della France Insoumise di Jean-Luc Mélanchon in Francia. Il claim di “Per un populismo di sinistra” potrebbe essere: se l’egemonia nemica neoliberista è in crisi perché non dargli la botta finale da sinistra? Che gli attuali partiti socialdemocratici, diffusamente perdenti a livello elettorale in ogni angolo d’Europa, non siano una risposta spendibile è chiaro come il sole (e ne parleremo tra qualche riga). Quello che invece stupisce dell’analisi storica degli ultimi trent’anni di governi, governanti e ideologie dell’Occidente di Mouffe è, da un lato, l’implacabile e fulminante sepoltura delle “terze vie” alla Giddens/Blair e di tutti quei partiti “progressisti” letteralmente ridipinti di neoliberismo spicciolo; dall’altro lo sdoganamento del babau concettuale “populismo”.
Iniziamo da qui, allora, da quella “ragione populista” teorizzata dello stesso Laclau in un altro libro del 2008 (in Italia sempre edito da Laterza). “Laclau definisce il populismo come una strategia discorsiva per la costruzione di una frontiera politica, che opera attraverso la divisione della società in due campi e chiama alla mobilitazione ‘i derelitti’, chi è sfavorito, contro ‘chi è al potere”, scrive Mouffe. “Il populismo non è un’ideologia e non può essere ricondotto a un contenuto programmatico specifico. Né si tratta di un regime politico. È un modo di fare politica che può assumere forme differenti a seconda del momento e del luogo, ed è compatibile con diverse cornici istituzionali”. Mouffe e Laclau sono concordi nel sostenere che oggi viviamo in un “momento populista”. Situazione politico-culturale che si verifica quando, sotto la pressione delle trasformazioni politiche o socioeconomiche “l’egemonia dominante è destabilizzata dalla moltiplicazione di domande insoddisfatte”. In queste situazioni, le istituzioni difendendo l’ordine costituito entrano in crisi, così “il blocco storico che fornisce la base sociale della formazione egemonica si trova disarticolato ed emerge la possibilità di costruire un nuovo soggetto di azione collettiva – il popolo – capace di riconfigurare un ordine sociale sentito come ingiusto”. Insomma il nostro “momento populista” corrisponde alla crisi dell’egemonia neoliberista che si è affermata a partire dagli anni ottanta del novecento. Sull’agonia neoliberista ci aveva ragionato Colin Crouch che aveva coniato il concetto di “postdemocrazia”, ovvero l’affermarsi del declino del ruolo dei parlamenti, della perdita della sovranità popolare, ma soprattutto del ritorno ad un’epoca pre-democratica con le élite politiche chiuse ad ogni istanza democratica e liberale. Un rapido rewind modello Rai Storia (qui la prosa tranchant di Mouffe è spettacolo puro) ed ecco ritrovarci in pieno periodo “post war consensus”. Stando larghi tra il 1945 e il 1974. Espansione dello Stato sociale, diritti dei lavoratori ottenuti con contrattazione collettiva, tendenza alla piena occupazione, strumenti keynesiani a go-go attuati bene o male da coalizioni di stampo socialista e in modo mitigato anche da quelle più conservatrici. Poi qualcosa nel patto di non belligeranza capitale/lavoro salta. È l’attimo sfuggente dell’affermarsi del liberismo economico come dottrina politico-culturale totalizzante, modalità di avanzamento caterpillar sulle conquiste sociali ed economiche che ha la sua apoteosi nella politica antisindacale e antistatalista di Margaret Thatcher.
La Mouffe preferisce chiamarla “postpolitica“, ed è la fine dei partiti socialdemocratici del Novecento: “Sotto la pretesa della «modernizzazione» imposta dalla globalizzazione, i partiti socialdemocratici hanno accettato i diktat del capitalismo finanziario e i limiti imposti da quest’ultimo agli interventi di Stato e alle politiche redistributive. Come conseguenza, si è ridotto drasticamente il ruolo dei Parlamenti e delle istituzioni che permettono ai cittadini di influenzare le decisioni politiche. Le elezioni non offrono più l’opportunità di scegliere, attraverso i tradizionali partiti di governo, tra alternative reali. La sola cosa concessa dalla postpolitica è un’alternanza bipartisan tra partiti di centrodestra e centrosinistra. Chiunque si opponga al ‘consenso al centro’ e al dogma che non vi è alternativa alla globalizzazione neoliberale è chiamato ‘estremista’ o squalificato come ‘populista’ ”. Che la socialdemocrazia sia quindi “incapace” di cogliere la natura di questo “momento populista” è lapalissiano. “Prigionieri dei loro dogmi postpolitici e riluttanti ad ammettere gli errori commessi, non sanno riconoscere che molte delle domande articolate dai partiti populisti di destra sono domande democratiche, cui bisogna fornire una risposta progressista. Molte di queste domande provengono, infatti, dai gruppi maggiormente colpiti dalla globalizzazione neoliberale e non possono essere soddisfatte all’interno della sua cornice”.
Come superare, allora, questa situazione d’impasse, senza lasciare che il cappello alle “domande democratiche” di questo “momento populista” lo mettano partiti ideologicamente orientati ai (non) valori della destra xenofoba, che sembra paradossalmente esserne diventata assurdo sinonimo? Secondo la politologa belga bisogna gramscianamente creare “una nuova egemonia che permetta la radicalizzazione della democrazia”. Non allontanandosi dal sistema democratico liberale, anche se sempre meno rappresentativo, con una “strategia dell’esodo” come suggerito da Hardt e Negri, ma costruendo un “popolo” e combinando “differenti lotte di resistenza” in una “relazione equivalenziale delle differenze”. “Opporsi alla postdemocrazia non significa abbandonare principi come la divisione dei poteri, il suffragio universale, i diritti civili, il sistema multipartitico, ma difenderli e radicalizzarli”, spiega la Mouffe. Ed è proprio in questo rinnovato “confronto agonistico tra progetti egemonici”, nella tensione del conflitto tra alternative politiche reali, che l’autrice intravede una prateria infinita per questa sorta di eterogeneità di istanze provenienti dal basso, dove si afferma la figura plurale di “cittadino” non più “contribuente” o “consumatore”. “In una fase postdemocratica, in cui una delle priorità dell’agenda politica è il recupero e la radicalizzazione della democrazia, il populismo, con il suo porre l’accento sul demos come elemento essenziale della democrazia, può ben rappresentare la logica politica più adatta alla congiuntura attuale”, – specifica la Mouffe -, “se la interpretiamo come quella strategia politica che evidenzia il bisogno di definire una frontiera politica tra il popolo e l’oligarchia, il populismo di sinistra si oppone alla visione postpolitica che identifica la democrazia con il consenso. Inoltre, facendo riferimento alla costruzione di una volontà comune costituita dall’articolazione di domande democratiche, ammette la necessità di tener conto di una varietà di lotte eterogenee, anziché immaginare il soggetto politico collettivo esclusivamente in termini di «classe»”.
Prendendo poi in prestito Freud, Spinoza e Wittgenstein, Mouffe invoca “meno razionalismo” de neutrale e grigi esperti della burocrazia governativa e più “affettività” nell’identificazione politica tra rappresentati e rappresentanti, ovvero “una strategia populista di sinistra deve essere coerente con i valori e le identità di chi cerca di interpellare gli aspetti dell’esperienza popolare e deve connettersi con essi (…) per essere in consonanza con i problemi che le persone incontrano nelle loro vite quotidiane, deve partire da dove si trovano e da cosa provano, offrendo una visione del futuro che dia speranza, anziché restare nel registro della denuncia”. Inoltre, il populismo di sinistra si deve sviluppare prima di tutto in una dimensione geografico-culturale “nazionale” (non sovranista, attenzione) e poi collegato, semmai, ad altre esperienze nazionali similari. Infine, nella vana elencazione di spiegare che qualcosa del genere vi sia già stato a livello storico recente si parla di Syriza in Grecia (vittima di un “colpo di stato finanziario” e costretta ad “accettare i diktat della Troika”), La France Insoumise di Mélanchon e il new labour di Jeremy Corbyn. Dall’Italia non pervenuto nemmeno uno straccio di esempio.