L'ultimo a cadere, subito dopo il voto di medio termine, è stato il procuratore generale Jeff Sessions: prima di lui 55 persone, tra ministri e funzionari delle varie agenzie di governo, sono stati licenziati dal presidente o hanno lasciato volontariamente l'amministrazione. Uno dei principali punti di frizione sono le politiche del capo della Casa Bianca in materia di immigrazione
Galvanizzato, e pronto a un nuovo attivismo. E’ questa l’immagine che Donald Trump vuole trasmettere dopo le elezioni di medio termine. Il risultato elettorale, per lui, è stato particolarmente deludente. Un presidente che perde la Camera, nel momento in cui la disoccupazione è vicina allo zero, può difficilmente rivendicare “una grande vittoria”. Come spesso avvenuto nel passato, nei momenti di difficoltà Trump però attacca. Lo fa anche in questa occasione: sia sul piano politico, annunciando un’ulteriore stretta sui richiedenti asilo; sia su quello amministrativo e di gestione, procedendo a una vera e propria “purga” dei ministri finiti in disgrazia.
La lista dei collaboratori di Trump licenziati, o che si sono dimessi, è lunga. Qualcuno ha anche provato a contarli. Fino a Jeff Sessions, sarebbero 55, tra ministri e funzionari delle varie agenzie di governo. Tra i nomi più noti ci sono l’ex consigliere alla sicurezza nazionale Michael Flynn (più tardi ha lasciato anche la sua vice Dina Powell; licenziato in malo modo anche il sostituto di Flynn, H.R. McMaster), il direttore dell’FBI James Comey (licenziato dopo qualche mese anche il suo principale assistente, Andrew McCabe), il capo staff Reince Priebus, il suo vice Rick Dearborn, il capo della comunicazione Anthony Scaramucci, il portavoce Sean Spicer e lo “stratega” Steve Bannon, il segretario alla sanità Tom Price, l’ambasciatore a Panama John Feeley, il chief economic adviser Gary Cohn, il segretario di stato Rex Tillerson, il capo dello staff legale John Dowd, il direttore dell’ufficio immigrazione Tom Homan e il responsabile dell’EPA, l’agenzia ambientale, Scott Pruitt, il White Hose Counsel Don McGhan e l’ambasciatore all’ONU Nikki Haley. L’ultimo costretto a lasciare è, per l’appunto, l’attorney general Jeff Sessions.
Al tempo dei suoi trionfi televisivi, Trump era identificato soprattutto con una frase: “You are fired!”, sei licenziato. Entrato alla Casa Bianca, non sembra essere cambiato molto. Ogni amministrazione conosce, col passare degli anni, un certo avvicendamento. Ma il numero degli epurati da questa amministrazione è assolutamente inusuale. Trump ha anzi portato alla Casa Bianca alcune caratteristiche tipiche del suo passato da imprenditore. La richiesta di fedeltà assoluta. La ricerca di un colpevole quando qualcosa va male. Chi non garantisce questi servizi è fuori. La cosa è tra l’altro spesso legata non agli affari di governo, ma proprio alla figura del “capo”. Il caso più eclatante è l’ultimo: il licenziamento di Sessions. La sua cacciata non dipende da un problema di gestione della giustizia americana: Sessions stava anzi imprimendo una svolta conservatrice al Dipartimento, come presidente e partito gli avevano chiesto. La sua disgrazia dipende da un problema personale di Trump. Sessions si era auto-sospeso nell’inchiesta sul Russiagate. Trump non gliel’ha mai perdonata. Al Dipartimento alla Giustizia è stato piazzato Matthew Whitaker, un fedelissimo che promette di fare argine contro i vari filoni d’inchiesta.
Le “purghe” sono comunque destinate ad andare avanti. Nei prossimi mesi Trump vuole liberarsi di quei ministri e collaboratori che considera ormai una palla al piede, per offrire l’immagine di un’amministrazione coesa e proiettata verso il futuro. Probabile partente è il segretario agli Interni, Ryan Zinke. Non perché sia caduto in disgrazia, tutt’altro. Trump lo considera uno dei consiglieri più affidabili. Contro Zinke è stata però aperta un’inchiesta del Dipartimento alla Giustizia di cui non si sa ancora molto. Zinke sarebbe implicato in un affare immobiliare tra il CEO di Holliburton David Lesar e una fondazione del Montana che lo stesso Zinke dirigeva prima di lasciarne la guida alla moglie. Sono complicazioni “etiche” simili a quelle che portarono all’allontanamento di un altro grande alleato di Trump, Scott Pruitt. Il presidente potrà comunque continuare ad ascoltare i consigli di Zinke nei programmi di Fox News. Il network della destra USA, che Trump guarda e cita spesso, è pronto ad assoldare Zinke come opinionista.
A rischio è anche il posto di Kirstjen Nielsen, segretario alla Homeland Security. Nielsen non è mai stata una favorita di Trump. Troppo vicina all’ex presidente George W. Bush; troppo poca coinvolta nel populismo conservatore di matrice trumpiana. Nielsen, agli occhi di Trump, avrebbe poi una colpa ulteriore: non sarebbe stata in grado di applicare le direttive in tema di immigrazione. Trump la considera la vera responsabile della “crisi” dei migranti che, nonostante minacce e proclami, il presidente non sembra in grado di risolvere. Di più: a giudizio degli uomini più vicini al presidente, Nielsen cercherebbe di sabotare le politiche migratorie attraverso obiezioni, limitazioni, perplessità. Il destino di Nielsen appare comunque strettamente legato a quello di John Kelly, il capo staff considerato il suo vero “padrino” politico. Dovesse essere estromesso Kelly, è sicura anche l’uscita di Kirstjen Nielsen.
Il capitolo su John Kelly è in effetti il più complicato e ricco di conseguenze. Kelly, il capo dello staff della Casa Bianca, è un ex generale dei Marine. Chiamato al posto di un uomo di apparato repubblicano come Reince Priebus, Kelly fin dall’inizio ha cercato di dare ordine a un’amministrazione sconnessa e turbolenta. Ci è riuscito solo in parte, considerati tutti gli intralci e le polemiche di cui sono disseminati questi mesi. Molto legato a Kelly è Jim Mattis, il capo del Pentagono, anche lui generale in pensione. Finora Mattis e Kelly hanno garantito a Trump la copertura delle Forze Armate. Voci interne all’amministrazione parlano però di dissensi ormai piuttosto aperti tra i due militari e gli uomini del circolo più ristretto di Trump. Lo stesso Trump, in un’intervista di settembre a “Sixty Minutes”, ha etichettato Mattis come “una specie di democratico”, aggiungendo che “potrebbe andarsene… del resto prima o poi tutti se ne vanno”.
Un’uscita di scena di Mattis e Kelly non sarebbe però un semplice avvicendamento. Entrambi militari di provenienza, hanno rappresentato lo strumento attraverso cui l’apparato industrial-militare ha appoggiato, e controllato, un personaggio piuttosto atipico come Trump. Altre forze e gruppi premono però nell’amministrazione, in particolare quello raccolto attorno al nuovo consigliere alla sicurezza nazionale John Bolton. Nei giorni scorsi è emersa la notizia di uno scontro molto duro tra Kelly e Bolton, appoggiato dalla sua vice Mira Ricardel. L’oggetto della lite sarebbe, ancora una volta, la politica migratoria, su cui Bolton condivide le posizioni più radicali della Casa Bianca. A riprova del fatto che, tra Kelly e Bolton, sarebbe il secondo a prevalere, viene anche un altro elemento. Bolton e Ricardel non rispondono a Kelly, ma direttamente a Trump. La loro autonomia dal controllo del capo staff sarebbe quindi assoluta; la progressiva perdita di potere di Kelly, all’interno dell’amministrazione, sarebbe il segnale di una sua prossima uscita.