Le accuse a vario titolo sono di turbata libertà degli incanti con l’aggravante mafiosa e abuso d’ufficio. Gli indagati avrebbero ottenuto l’aggiudicazione dei pascoli mediante la presentazione di offerte segrete con aumento di un euro rispetto a quelle fissate a base d’asta. L'ex presidente Parco dei Nebrodi: "L'operazione è un ottimo segnale di prosecuzione nel ripristino della legalità"
Si aggiudicavano pascoli, grazie ai quali potevano ottenere contributi comunitari, offrendo un euro in più rispetto alla base d’asta. Sono quindi le persone indagate e sette quelle arrestate nell’ambito dell’operazione Nebros II sulla gestione mafiosa dei pascoli demaniali del Parco dei Nebrodi condotta dalla Dda e dalla Guardia di finanza di Nicosia (Enna). Le accuse a vario titolo sono di turbata libertà degli incanti con l’aggravante mafiosa e abuso d’ufficio. Dall’indagine è emersa appunto l’infiltrazione di cosa nostra nell’aggiudicazione dei pascoli demaniali per ottenere i soldi pubblici. Terreni che, come accertato da altre inchieste, venivano ceduti da agricoltori e allevatori intimiditi o minacciati. Una vicenda che, secondo i magistrati, riguarda una gara pubblica, bandita nel 2015 dall’azienda speciale Silvo Pastorale del Comune di Troina, per l’affidamento di 16 lotti. Gli indagati avrebbero ottenuto l’aggiudicazione dei pascoli mediante la presentazione di offerte segrete con aumento di un euro rispetto a quelle fissate a base d’asta.
Secondo quanto ricostruito dalle Fiamme gialle, “le offerte ‘segrete’ erano state concordate e pianificate a monte, vanificando i meccanismi di regolare concorrenza del mercato, con corrispondente danno per l’ente pubblico concedente”. Gli indagati, tutti imprenditori agricoli, con la connivenza del direttore protempore dell’azienda Silvo-Pastorale, avrebbero così monopolizzato le procedure negoziali, scoraggiando l’accesso alle stesse ad altri soggetti in ‘regola’ e con fondate aspettative di aggiudicazione della gara pubblica, ricorrendo al metodo mafioso e alla forza intimidatrice. Dalle indagini è emerso inoltre che il direttore tecnico pro-tempore nonostante fosse in vigore il cosiddetto ‘Protocollo Antoci’, avrebbe richiesto in ritardo, e solo dopo la stipula dei contratti, l’apposita Informativa antimafia alla Prefettura competente, la quale all’esito degli accertamenti, certificava attraverso l’emanazione di un’Interdittiva antimafia, l’appartenenza e/o la vicinanza degli indagati ad organizzazioni criminali di stampo mafioso. Una volta emanata l’Interdittiva antimafia, il direttore tecnico pro-tempore avrebbe avviato in ritardo le procedure per la rescissione dei pascoli. Tale ritardo avrebbe comunque consentito agli indagati la percezione illecita di contributi comunitari per importi pari a 3 milioni di euro.
“L’operazione di oggi della Guardia di Finanza di Enna, è un ottimo segnale di prosecuzione nel ripristino della legalità sul fronte della lotta alla mafia dei terreni” fa sapere Giuseppe Antoci (nella foto), ex presidente del Parco dei Nebrodi e sfuggito ad un agguato mafioso a maggio 2016. L’operazione dimostra, in maniera chiara, che l’attivazione delle procedure messe in essere con il Protocollo di legalità, costruito sui Nebrodi e diventato il 27 settembre 2017 legge dello Stato, colpisce in maniera forte gli affari delle mafie sui Fondi europei dell’agricoltura riportando allo Stato il maltolto attraverso l’esercizio proprio dei sequestri finalizzati alla confisca. “Tanti mafiosi da anni – continua Antoci – lucravano milioni di euro di Fondi Europei per l’agricoltura, intimidendo agricoltori e allevatori per farsi cedere i terreni, e tutto ruotava, appunto, attorno alla violazione dei criteri oggi invece sanciti dal Protocollo di legalità e dalla successiva legge nazionale”. La corte dei Conti ha già emesso centinaia di sentenze in cui si condannano esponenti di spicco di cosa nostra a restituire quanto ottenuto dai fondi comunitari destinati all’agricoltura.