di Federica Morrone
Ormai è noto che la cura di una malattia è più efficace quando alle classiche terapie mediche – necessarie e imprescindibili – si affianca anche un approccio integrato, composto dall’amore, dalla socialità, da una dieta appropriata, dalla meditazione, da stimoli creativi. La letteratura in merito si moltiplica ogni giorno. Però curare non significa soltanto guarire, ma anche accompagnare i pazienti, non abbandonarli, rendere significativi gli ultimi istanti. Un intervento efficace si sta rivelando la medicina narrativa, che agisce sul mondo interiore del paziente. Utilizzare la narrazione di se stessi per stare meglio è un metodo antico, riconosciuto dalla psicoterapia. A questo si può aggiungere il teatro, la musica, la visualizzazione di una storia.
A Genova tre associazioni (Gigi Ghirotti, Città di Genova, Istituto Italiano di Bioetica), guidate dalla sensibilità del poeta e scrittore Ivano Malcotti, hanno unito un team di professionisti che sostengono i pazienti, anche quelli con una prospettiva di vita molto breve, in un percorso legato al racconto e alla rappresentazione. Le storie della vita dei pazienti – alcune avventurose e legate non solo alla memoria personale ma anche a quella collettiva e storica del nostro Paese, altre più semplici ma comunque permeate di lirismo – vanno in scena diventando dono per il paziente e per le persone che lo circondano. I parenti e gli amici prendono tra le mani una vita cara che se ne sta andando, raccolgono ricordi, sogni, speranze, rendendo reale un’idea di continuità.
Per il malato ricongiungersi con la propria creatività, recuperare istanti passati, rivedere se stesso in una rappresentazione – che può essere uno spettacolo vero e proprio, una lettura o un evento poetico – significa sentirsi nuovamente e pienamente protagonista della propria vita. Questa forma di teatro si svolge in diversi ambiti, alcuni davvero molto piccoli e per pochi intimi, ovvero, nei casi più gravi, accanto al letto di un paziente in stadio terminale, in ospedale o addirittura a casa. Da qui il nome del progetto Teatro DiLetto, inteso come piacere da dare, ma anche come “accanto al letto”. Ogni paziente, sentendo riconosciuta la propria dignità, riesce a connettersi con le emozioni, a sentirsi vivo. “C’è ancora molto da fare, quando non c’è più nulla da fare” ripetono gli operatori.
Le associazioni genovesi stanno lavorando alla stesura di un manuale nel quale sistematizzare la loro esperienza, in modo che serva come guida per altri operatori del settore, ma anche per i familiari dei pazienti, e si stanno adoperando per diffondere dei piani formativi che divulghino questa esperienza oltre ai confini della Liguria.
Questo progetto coraggioso è portato avanti da un’equipe di medici, infermieri, psicoterapeuti, operatori socio sanitari, attori, musicisti, scrittori, volontari. Il loro è un lavoro complesso, che richiede metodo e professionalità, ma anche sensibilità e capacità di empatia per conquistare la fiducia di chi, ovviamente depresso nel proprio male, si è già chiuso al mondo. Riescono a entrare nelle vite degli altri e a mettersi in ascolto attivo, aprendo respiri di vita laddove sembra non ce ne siano più.
Chi assiste un malato grave si trova a provare, oltre al dolore e alloro smarrimento, un profondo senso di impotenza. Ricevere uno strumento di riconnessione con la vita è importante. Pazienti ormai spenti e rassegnati hanno ritrovato seppur per brevi istanti la luce negli occhi, hanno raccontato, hanno visto interpretare attimi del loro passato, hanno chiesto dopo mesi di indossare qualcosa di diverso dal pigiama, fosse anche soltanto una sciarpa colorata.
Ogni persona merita attenzione, ogni storia merita di essere raccontata, fino all’ultimo. “Serve?” qualcuno si domanderà aggiungendo “tanto ormai…”. La risposta la si può trovare andando nei reparti oncologici, negli ospizi, nelle case di molti genovesi dove diverse forme di rappresentazione stanno rafforzando i percorsi di cura che in questo modo diventano personalizzati e dando conforto agli ultimi istanti dei pazienti con patologie in fase terminale. La risposta è nella compassione nel suo significato più antico, che evoca, oltre che la condivisione di emozioni, la partecipazione e l’immedesimazione con l’altro.